(IM)PERFEZIONE E LA SUA IPOCRISIA

(IM)PERFEZIONE E LA SUA IPOCRISIA

Autore: Antony Russo

Conceptual Businessman Writing Nobody is Perfect Phrase with Underline on Abstract Grey Background.

ATTO CINQUE

Dolore. 

Non ricordo cosa sia la realtà. 

Quanto mi circonda assume tonalità cangianti: seguono i miei stati umorali. 

La felicità abbracciata in quell’attimo di conoscenza era svanita. 

Mente e cuore sono ostaggio di stati d’animo estremi. Mi sfiniscono. 

Frenesia e depressione gareggiano per farmi loro. Io mi sento sballottato, non ho alcun controllo. Mi faccio trasportare e vincere. 

Ho cercato comprensione, ma non ne ho avuta. Soprattutto da coloro che hanno partecipato attivamente alla mia distruzione. 

Le iniezioni non si facevano da sole, ma è meglio negare. 

Risulta più semplice dapprima sostenere non sia possibile io stia così male viste le dosi minime e poi rinnegare la compiacente complicità. 

“Ho sempre sospettato fossero quei prodotti a fargli del male. Non potevo far niente, avevo paura”. 

Dipingermi aggressivo salva la faccia, quella che sarebbe stata necessaria indossare nell’ammettere quanto fosse comodo mostrarmi come un premio. 

Ero un soprammobile da mostrare, l’ennesima coppa. 

Quella stessa semplicità, con cui mi era stato sputata in faccia l’ardua sentenza: “Nessuno può stare con te, sei malato”. 

Parole insignificanti, ma che erano riuscite a penetrarmi talmente a fondo nell’animo, da andare a slabbrare quella lesione putrescente incapace di chiudersi, facendomi dubitare di me stesso. 

La ferita del non amato che ho scoperto di avere. Anch’essa è un bel macigno, la quale traboccante favorisce la mia instabilità mentale assieme all’astinenza dai prodotti dopanti. 

“Ero a conoscenza della tua ferita. Non ti ho detto nulla, dovevi curarti da solo”. 

La quinta essenza dell’egoismo compendiate in un unico incontro. 

La mente vaga e ora ricordo. 

Avevo già visto il medesimo libro, quello di Peter Schellenbaum: La ferita dei non amati, nella casa dove non ero più ritornato. 

Ripenso a quel me stesso disorientato. L’eterno divoratore. 

Colui che nel tentativo di comprendere le ragioni di un vuoto affamato, trangugiava di tutto. 

Cibo, amore, droghe, alcol. 

Chi avevo accanto, se non fosse stato troppo impegnato a scrutare se stesso, avrebbe potuto aiutarmi. Aveva davvero la soluzione lì, nella libreria. 

La dipendenza affettiva. 

Quella era la ragione. 

La sensazione di non essere amato, la certezza della mia inadeguatezza e la voglia di eccellere in tutto per essere accettato. 

Avendo vissuto da fallito, nonostante ottenessi risultati, avevo cercato la perfezione fisica, soffocando il mio cuore e la mia empatia. 

La mia dolcezza era ormai morta da tempo: ero stanco di soffrire donando amore. 

 Grazie agli anabolizzanti avevo eretto una fantastica corazza. Era temporanea.  

Mi aveva fatto sentire onnipotente all’inizio e poi mi aveva distrutto accrescendo paure, condite con le psicosi.

Questa era stata la mia distruzione. 

Il “non amore” regalatomi da chi al mio fianco sussurrava beffardamente di amarmi durante questa metamorfosi aveva peggiorato e accelerato il mio decadimento. 

Mi svuotavo. 

Cercavo di riempire il nulla: provavo qualcosa di nuovo che aggiungevo al resto. 

Inutile. 

Durante i mesi passati, ogni volta che trovavo una soluzione, giungevo a una nuova scoperta. 

Un nuovo scoglio. 

Ora c’era la ferita. 

Cosa devo fare?

Appena cerco di focalizzare qualcosa, esso pare sfuggirmi. 

La mia mente viene deviata dall’ennesimo incubo a occhi aperti. 

Ancora mi capita di fissare il vuoto a volte. 

Molto più spesso è questa dannata angoscia a impedirmi di vivere. 

Rimango fermo e sdraiato, incapace di muovermi. 

Senza voglia di fare. 

Quando i pensieri dolorosi diventano assordanti leggo o, ancora meglio, ascolto musica o Coach Motivazionali. 

C’è anche la scrittura. Riescono ad azzittire tutto. 

Altrimenti non mi resta che attendere e pregare.