Autore: Stefano Luigi Cantoni
Non sempre è tutto oro quel che luccica e, come la più beffarda delle illusioni, anche scrivere spesso riserva dolori e non solo gioie. Dolori fisici, senza dubbio: posizioni protratte per ore, magari su sedie da quattro soldi, a ingobbirsi come antenati nel digitare e cancellare lettere sulla tastiera.
Dolori emotivi, poi, nel coinvolgersi troppo dentro le storie che raccontiamo: spesso diviene difficile, per non dire arduo, distinguere tra realtà e finzione. Gi spiriti dei nostri personaggi li sentiamo, li viviamo con impressionante trasporto, noi scrittori: ci pare persino di percepirne il respiro, udirne i passi e coglierne la fragranza che la loro pelle emana.
Una pagina da riempire, molto spesso, non è un diagramma a cui dover dare un risultato esatto, nemmeno un bilancio da far quadrare e, tantomeno, un preventivo da stilare: scrivere, imprimere, dare senso è un atto faticoso, oltremodo snervante e, nondimeno, altrettanto coraggioso.
Ore e ore a strutturare gli accadimenti, a tessere prima nella mente e poi su carta i rapporti e le connessioni logiche, anni di vita assorbita e inconscia da poter (ops, dover) liberare nella giusta misura. Un sottile gioco di equilibri, ingredienti e mescole da lasciar insonne anche il più sicuro dei baccellieri barocchi.
Sì, amici cari, pubblico adorato, perché scrivere non è un privilegio, ma una condanna: sia ben chiaro, dolceamara e non tragica, psicofisica e non prettamente corporale, ma pur sempre condanna. Impervio è dedicarsi a far uscire qualcosa che non sempre ha voglia di veder la luce, oppure ne ha fin troppa: la delicatezza è una sottile e imprescindibile arte del bravo scrittore (o anche aspirante, suvvia, siamo di bocca buona da ste parti).
Ma la gioia di poter rileggere quelle poche righe dense di noi, del nostro vissuto e persino di ciò che avremmo voluto essere e fare, ci ripaga di tutto: i magoni, le occhiaie da sonno, i dubbi esistenziali e i crucci per non offendere personaggi frutto solo della nostra fervida e discutibile immaginazione.
Un grandissimo Cervantes diceva, o meglio faceva dire al suo caro Don Chisciotte, che senza una dose di lucida follia non vale la pena vivere. Ecco, una vita da scrittori, oggi, in Italia (mi illudo che sia così anche altrove, ma non ci spero troppo…) necessita di uno slancio coraggioso, di un sogno fuori dagli schemi, di un atto incondizionato d’amore.
Scrivere, e vivere da scrittore, significa trasformare la letteratura in vita vera: fare la spesa con gli occhi dei nostri personaggi, parlare al prossimo come farebbe il protagonista di un romanzo che amiamo, sopportare il quotidiano con la dignità che solo chi tenta grandi imprese conosce.
In sintesi, illudersi che l’immaginazione possa ancora vincere sulla rassegnazione, perché in fondo, come diceva Eduardo Galeano, l’importante è continuare a camminare…