Autore: Sabrina Fava
Era il 2013 quando sembrava che si fosse adagiato sul mercato l’ennesimo videogioco survival horror. In quegl’anni i gamer si erano consumati i polpastrelli destreggiandosi fra Resident Evil e Call of Duty Zombies e non avevano la spinta necessaria per buttarsi nella nuova solita avventura.
Tuttavia con il passare delle settimane, le riviste si stavano rimpinzando di articoli riguardanti il nuovo gioco prodotto da Naughty Dog, i voti delle recensioni sfioravano le dieci stelline su dieci. La musica del musicista Gustavo Santaolalla vincitore dell’Oscar alla migliore colonna sonora: per I segreti di Brokeback Mountain, cominciava a intessere l’aria.
Il gioco si apriva con una trama che risultava scontata fin dai primi istanti. Apocalisse zombie. Un uomo e sua figlia che scappano per la città in preda al terrore, mentre muri crollano ed edifici illuminano la notte con sbuffi aranciati. La pelle che bruciava, i vestiti pieni di fuliggine. Una manciata di soldati a bloccargli la strada. Senza nemmeno dargli il tempo di proferir parola, senza un maledettissimo motivo cominciavano a sparare. Non riuscivano ancora a differenziare gli esseri umani dai mostri. E forse non ci sarebbero riusciti mai.
La bambina veniva colpita al ventre. Il padre non era più un padre, stringeva fra le braccia un corpo già morto.
Lo schermo diveniva nero e tre semplici parole ci facevano intendere che erano passati ben vent’anni. Il mondo era alla fine dei suoi giorni, le città avvolte dai rampicanti e la natura aveva ripreso in mano quel pianeta che una volta gli apparteneva.
Joel, l’uomo di cui sopra, faceva parte di un piccolo gruppo sotto controllo marziale. Pochi diritti, tanta disciplina. Era solo, freddo, viveva senza vivere davvero. Non notava più quelle sfumature celesti che impregnavano il cielo, non si soffermava a inspirare la fragranza dolciastra che sprizzava dagli alberi in fiore. Si era spogliato di ogni gioia indossando un giubbotto antiproiettile e zittiva i pensieri con il rumore del piombo, una pistola ad appesantirgli la cintola. Era un contrabbandiere, uno dei peggiori della specie. Era manipolatorio, era vile, era spietato. Era un uomo che aveva perduto ogni motivo per essere buono. Ancora una volta il vero mostro non si rivelava quello che rimaneva fuori dai cancelli a mangiare carne, ma quello che insito cresce, si deforma e si nutre della linfa vitale che coesiste dentro ogni essere umano. La dannazione era, ancora una volta la capacità di pensiero, come un riverbero del passato e del futuro in un eterno cerchio infernale.
Gli era stato assegnato un nuovo incarico, doveva scortare Ellie, una ragazzina della stessa età della sua defunta figlia, dall’altro lato dello Stato. Lui, incarnando le vesti di grezzo, approssimativo e superficiale uomo di mezz’età si ritrovava a rifiutare, come a confermare quanto la trama fosse prevedibile. Tuttavia, l’esperienza insegna che le trame scontate sono quelle che ci rimangono avvinghiate al cuore, perché sono storie di vita e sono dannatamente reali.
Con il passare delle ore ci si ritrovava a condividere piccoli spazi bui o ad ammirare paesaggi innevati con i due personaggi, il passare delle stagioni a intensificare quel rapporto che solo un padre e una figlia possono avere.
The Last of Us è un’esperienza di rivalsa in cui un uomo torna alla vita.