TESTO DOVE SEI FINITO?

TESTO DOVE SEI FINITO?

Autore: Stefano Luigi Cantoni

Non è certo argomento che scopriamo oggi, ma non posso che dedicare questo mio intervento a una questione che spesso mi tortura: per ogni scrittore, il problema principale (o uno dei maggiori) è quello di essere letti. La distanza tra chi scrive e il mondo narrato può essere colmata solamente attraverso un meccanismo unico e prezioso che, nella lettura, trova la sua più alta manifestazione.

Una condivisione che necessita, però, di un solido collante: è qui che subentra lo stile. Sì, cari miei, perché lo stile non è scrivere con subordinate barocche e frasi prosopopee infarcite di metafore e climax. No, lo stile è in realtà molto più pratico: sta nel saper coniugare la storia che stiamo scrivendo con chi, quella storia, dovrà leggerla.

Creare letteratura sta anche nel mettere in condizione i lettori di poter “entrare” nel mondo che hanno di fronte a loro, un mondo che non conoscono e, sottolineo, non sono tenuti a voler e dover conoscere per forza. Non basta pubblicare per essere letti e, soprattutto, per definirsi scrittori: in Italia, mi duole ricordarlo, ci sono pochissimi lettori a fronte di molti (troppi, rivedibili e improvvisati) “scrittori”. 

Il mare magnum della mediocrità propria tende ad affogare ogni isola, ogni anelo di pace, ogni terra emersa: non v’è speme per chi prova a buttar fuori la testa da tale informe piattume. Conta solo pubblicare, a qualsiasi costo e con qualsiasi compagine.

Un ribaltamento doloroso di ciò che, in realtà, dovrebbe essere il fondamento di una buona e salvifica narrativa, in cui il testo sta al centro di tutto. Oggi, invece, quello stesso testo (la storia, il valore unico di senso) è un mero accessorio acchiappa like, un ricettacolo di plausi vuoti elargiti con fredda compassione da soloni da tastiera tristi e, nella maggior parte dei casi, incompetenti.

Il tempo moderno ha sostituito il pieno della coscienza letteraria con la mancanza, che essa sia di studio, di qualità o di umiltà. Oggi pubblicare è gioco facile, vuoi per le piattaforme “regala-sogni” vuoi per le sempre più numerose stamperie (ops, case editrici…) che non vedono l’ora di assecondare (quasi mai gratis) le smanie di grandezza dei sedicenti “novelli Dante.”

Il nemico numero uno è la vanity press, cari miei: uscire a tutti i costi e a qualunque prezzo, condizione, prostrazione e umiliazione. Tutti si sentono i salvatori della lingua italiana, mirabili novellatori e irresistibili affabulatori nonostante, tra le preziose pieghe dei loro intoccabili manoscritti, giace sordo e traditore più di un congiuntivo sbagliato! (Colpa dell’editor, quell’asino…)

La letteratura è arte nobile e antichissima e, come tutte le grandi bellezze, merita rispetto e dedizione: non si può pensare di essere scrittori se non si inizia, quantomeno, a ragionare da scrittori. Educare (dal latino educere, condurre fuori) è il verbo solo, unico da imprimere nella coscienza di chi vuole approcciarsi a questo mestiere. Uscire dai cliché è il primo passo per intraprendere un percorso di consapevole crescita nei confronti dell’ambiente e della propria professione (o passione, ma egualmente vale la pena chinare il capo.)

Scrivere è un mestiere che non ha nulla a che vedere con balletti o cabaret al fine di vendere qualche copia in più del proprio racconto o romanzo sul senso della vita. Occorre rimboccarsi le maniche, voler sbagliare per poter migliorare e riscrivere da capo, qualora fosse necessario, ogni parola. 

Non c’è nulla di più essenziale che ritornare alla centralità del testo, perché è quello che consegna l’autore alla memoria, non il contrario: il vero scrittore deve prestare servizio alle idee e alle loro vibrazioni, assecondando la dirompenza di quelle tessere uniche e imprevedibili chiamate storie. Tutto il resto, mi pare un vuoto e alquanto inutile contorno.