Autore: Stefano Luigi Cantoni
Ah, l’amore! Il tempo di un brivido caldo, simile a una scossa, e l’oggetto del desiderio svanisce, tra farfalle annidate nello stomaco e battiti del cuore a dir poco irregolari. Fame d’aria, anzi no, di baci, di sospiri anelati nella penombra lacrimosa e disperata di una stanza illuminata solo dalla flebile luce di una candela. Bella immagine, non è vero?
L’amata, simbolo per eccellenza della perfezione divina incarnata in essere vivente e pensante, degna di un solo sguardo il povero spasimante e scatta l’idillio salvifico. Una donna angelo, latore di eterna gioia e superiore appagamento dei sensi, pronta a brandire con educata ma decisa bramosia le membra del cavaliere di turno. Ovviamente, al centro di tutto, la bellezza. O forse, non proprio.
A voler ben vedere, se leggiamo tra le righe di alcuni capolavori della letteratura, troviamo parecchi (curiosissimi) esempi di donne che brillarono in tutto fuorché per la loro beltà. Indimenticabile, a tal proposito, la frase che Flaubert fa pronunciare a Emma Bovary, un connubio dirompente di ribellione e rivolta verso i canoni prestabiliti di un mondo prettamente maschilista: “Ce ne sono tante più belle di me, ma io, io so amare meglio di tutte!”
Rileggendo questa frase non posso fare a meno di apprezzare tutta la prorompente potenza che traspare da queste parole. Già me la vedo Emma, insofferente a un diffuso e oltremodo soffocante comune pensare che associa l’esser degni di amare (o essere amati) a una condizione prettamente esteriore e indipendente da noi come la bellezza fisica. Emma la gira a suo favore, e per giunta in grandissimo stile: non sarà certo la più bella del reame (non me ne voglia una certa Regina, ma quella è un’altra storia…) eppure lei ama meglio delle altre.
Credo stia proprio qui lo strappo moderno che Flaubert ci lascia: il passaggio da un mondo borghese intriso di preconcetti e figure patriarcali a uno moderno in cui l’essenza delle cose va oltre il velo semitrasparente del broccato di corte. Non nascondo che, da classicista quale sono, non ho resistito alla tentazione di giocare un poco: nella comoda poltrona in cui sto peraltro scrivendo queste poche (discutibili, a dire il vero) righe su Emma Bovary, mi sono immaginato la nostra eroina seduta a tavola con un’altra donna altrettanto eccezionale come la Medea, protagonista di una delle più belle tragedie greche mai esistite.
Vi sembrerò del tutto matto e probabilmente lo siete pure voi che mi state a sentire, eppure vi prego datemi un’ultima possibilità: chiudete gli occhi e pensate Emma e Medea, una accanto all’altra, definite e delineate dal loro stesso dolore.
Dolori diversi, per dirla tutta, ma ugualmente profondi, sordi, inestirpabili come cancri atavici: la condanna di essere donne, vittime di una bellezza che non hanno e senza la quale il mondo che le circonda non le ritiene “all’altezza”. Un mondo che tende a escluderle, a emarginarle, persino a esiliarle: un sentire comune che però risulta loro estraneo, storpiato, oltremodo vuoto.
Emma reagisce con l’amore, che lei sa fare meglio di tutte le altre. Medea con l’odio, che cova dentro sé più di ogni altro essere umano, arrivando persino a uccidere i propri figli in nome di quella che ritiene essere la “giustizia”. Due facce della stessa medaglia, due effigi commoventi e moderne di accettazione del male di vivere da cui tutti noi, spegnendo almeno per un istante il roboante cicaleccio mediatico, dovremmo prendere esempio.