SALUTARSI IN LIBERTA’

SALUTARSI IN LIBERTA’

Autore: Stefano Luigi Cantoni

Gabriele Salvatores ha affermato che i romanzi, così come la musica, sono volani di libertà e ha aggiunto, da sensibile e saggio essere umano qual è, che se dovesse scegliere come morire opterebbe per la musica, in particolar modo quella dei Pink Floyd.                                                                      Senza soffermarsi sui gusti e sui generi, ritengo questa massima un ottimo spunto per pensare al valore del tempo e a come, questo tempo, lo spendiamo, anche e soprattutto per riprendere contatto con quelle famose quote di coscienza che tanto mancano in tempi come questi.

Se Gabriele Salvatores ci saluterebbe per sempre ascoltando Waters e Gilmour, vien da chiedersi cosa sceglieremmo noi nel momento del viaggio verso l’aldilà. Domanda dolorosa e complicata, in fondo chi ci pensa: la dipartita, a dirla tutta, è cosa “altra” da noi, come sosteneva Epicuro. Se noi esistiamo non sussiste lei e, quando ella si manifesta, noi non siamo più nulla: tanto vale non temerla. 

Sorvolando su queste dissertazioni, mi preme concentrarmi su come vorrei salutare la vita e la prima parola che mi balena in mente è quella che, in fondo, lega cinema, musica e letteratura: libertà.                                                                                                                                                Impossibile, citando Salvatores, esimersi dal parlare di grande schermo: nel 1984, anno in cui il sottoscritto venne al mondo, vide la luce anche un film meraviglioso siglato Alan Parker, dal titolo “Birdy, le ali della libertà”: uno spaccato drammatico e potente di un mondo in guerra che, nella chimera di un vivere libero e privo di male, si propose come modello di rinascita e speranza.

Una speranza che, passando alla musica (tanto amata dal regista italiano), venne mirabilmente cantata da Aretha Franklin in “Think”, inno all’emancipazione e a una presa di coscienza libera sia del proprio essere diversi che dell’appartenere a un unico, grande, spesso controverso globo. Era il 1968: il subbuglio del mondo travolgeva le generazioni trasportandole, con una sinuosa e consapevole mareggiata, verso lidi di apertura mentale ed inclusione, volani imprescindibili per la crescita individuale di ogni essere umano.

L’apertura auspicata nel brano della Franklin non può che confluire in una delle pagine più moderne, commoventi e inneggianti alla libertà che la letteratura del nostro novecento ci abbia regalato, appartenente alle “Città invisibili” di Italo Calvino, edite nel 1972.

Il confronto costante tra Marco Polo e Kublai Kan porta a riflessioni profonde e stratificate che, nel libero pensiero, si ancorano e che, del libero pensiero (e del coraggio), fanno il loro slancio: il mercante veneziano incarna una visione olistica, totale e fanciullesca dell’esistenza in quanto esperienza meravigliosa e degna di esser vissuta (e raccontata); Kublai, di contro, rasenta il bieco (e cieco) materialismo, immune alla pazienza, alla calma e a una necessaria visione d’insieme.

Ecco, per tornare a Salvatores, se dovessi salutare qualcuno all’ultimo tornante della “mia” personalissima corsa, lo farei (probabilmente) con le parole di Calvino, con le quali vi saluto.“Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.

Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan.

Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, – risponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano.                                                                                                              

Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché mi parli delle pietre? É solo dell’arco che mi importa.                                                                                                                             Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.