Autore: Antony Russo
Oggi voglio accompagnarvi in un viaggio. Qualcuno potrebbe definirlo un piccolo racconto di orrore quotidiano, ma sono ben conscio che altri, forse protestando, lo inquadreranno tra gli episodi di vita ordinaria.
Potremmo, alla fine del racconto, domandarci quale fazione abbia ragione: solo uno stolto crederebbe ancora che esista una sola verità!
L’intelligente (qui inteso nella sua dimensione emotiva) conoscerà sicuramente il concetto di relatività della realtà: ogni vita vissuta ha peculiarità non replicabili, tali da rendere la risposta emotiva strettamente personale.
Detta in altri termini, ognuno risponde e affronta le esperienze a proprio modo: un episodio ritenuto futile da alcuni, può essere per altri vissuto come tragedia.
Affinché possiate calarvi nei panni del protagonista di questa storia, introducendo il racconto, mi limiterò a delineare il contesto in cui le vicende si svolgono, evitando di caricare di eccessiva concretezza i dettagli. Quel che conta è la morale finale di quanto mi appresto a raccontarvi.
E’ necessario, a questo punto, individuare usi e abitudini delineando il periodo storico in cui la vicenda si svolge. Non dobbiamo muoverci di molto a ritroso, ma sembrerà quasi di trovarsi in una realtà parallela: le innovazioni tecnologiche susseguitesi negli ultimi decenni rendono il nostro “Ritorno al futuro” quasi un vero e proprio salto nella preistoria.
Siamo alla fine degli anni ‘90: in particolare in un triennio a partire dal 1998. Forse, per quelli della mia generazione, quel periodo ormai relegato nella nostra infanzia/adolescenza ha assunto le fattezze di un miraggio. Cerchiamo di inalarne il profumo con notevole nostalgia, sebbene non rinunceremmo ormai più alle novità. Noi, abbiamo vissutoanche senza computer connessi a reti ultraveloci, cellulari (quelli di nuova generazione intendo), e, soprattutto, Social, nonostante decantiamo lo splendore dei “nostri tempi”, siamo diventati schiavi quanto le nuove generazioni di amicizie fittizie e “mi piace” ballerini.
Noi che eravamo quelli degli squilli sul telefonino (per chi già aveva la fortuna di poterlo avere), perché le chiamate e i messaggi costavano davvero troppo ed una ricarica andava sudata.
Ad ogni modo, ci troviamo a contemplare gli anni che hanno visto il debutto, nei cinema, di film quali “Salvate il Soldato Ryan”, “Il mistero della strega di Blair” e “Matrix”.
L’epoca in cui da una parte due studenti dell’università di Stanford fondavano Google Inc. nel garage di una villetta, e dall’altra aveva il suo debutto Messenger.
Mentre questo accadeva nel mondo, il nostro protagonista si trova all’interno di una stanza in piedi, completamente impalato e impallato. Di fronte a sé ha decine di suoi coetanei undicenni e al fianco la professoressa di Italiano che lo osserva mentre tra le mani stringe una copia de “Il mastino di Baskerville” di Arthur Conan Doyle.
Il nostro piccolo amico aveva tentato, invano, di cambiare la propria sorte, che sin dall’inizio di quell’anno scolastico non era stata delle migliori. Estremamente intimidito dal mondo, era entrato in prima media incapace di credere in sé stesso. Quasi del tutto isolato, si era trovato innanzi un nuovo ed inaspettato scoglio.
La professoressa di Italiano l’aveva preso, inspiegabilmente, di mira. Il nostro protagonista nonostante i mille sforzi non riusciva a capirne la motivazione. A volte pareva prendersela con tutti coloro che erano sovrappeso ovvero con le persone timide ed introverse. I “deboli” se così vogliamo chiamarli. Però pareva aver una particolare predilezione nel torturare proprio lui, che si trova ora, paonazzo, davanti a tutta la classe.
Ci sarebbe tutta una pregressa storia da raccontare sul nostro piccolo amico impacciato, l’unica, tra l’altro, che potrei riferirvi in quanto conosciuta, ma anche se sarebbero utili a spiegare le lacune emotive presenti nella personalità dello stesso, divagheremmo dal tema centrale. Le motivazioni sottese alle azioni dell’insegnante, invece, non sono note, possiamo solo avanzare per tentativi e supposizioni.
Possiamo, invece, soffermarci seppur brevemente sul perché ci troviamo ad assistere a quella che è, a tutti gli effetti, un’interrogazione. Il nostro protagonista, infatti, aveva inconsciamente adottato una modalità di comportamento tesa a compiacere la professoressa, ma ogni tentativo era risultato vano.
Uno di questi tentativi aveva come risultato proprio la situazione che vi sto raccontando. L’insegnante, infatti, era solita portare nella biblioteca della scuola, ogni mese circa, gli studenti affinché scegliessero un libro da leggere, per poi essere interrogati sullo stesso. Il nostro amico scelse proprio “Il mastino dei Baskerville”, una particolare lettura per quell’età, al fine di impressionare l’insegnante. V’era un piccolo problema: odiava leggere, anche se amava i libri in un modo tutto suo.
Adorava tenerli in mano, udire il frusciare della carta mentre girava le pagine, percepirne il profumo, erano gesti quasi ipnotici. Solo l’anno successivo sarebbe stato investito da una cocente passione per la lettura. Era destino si trovasse esattamente in quel punto a subire quell’ennesima umiliazione.
Ci aveva provato, ma aveva fallito. Meritava di prendere un brutto voto? Si. Non era preparato ed era stato lui a scegliere quel romanzo. Meritava di subire quell’umiliazione per mano della professoressa che, conscia dell’occasione ghiotta che le si era presentata, non aveva desistito a coglierla? Quanto era consapevole che ella rivestiva i panni di una figura pari a quella di un genitore, per qualcuno di quell’età, e che “La ferita che il non amore ci ha inferto è il ventre dal quale veniamo generati molte volte” (Peter Schellenbaum, “La ferita dei non amati”).
Non poteva perdere quella ghiotta occasione per ricordare a quel piccolo studente grassoccio, quanto fosse incapace, non degno di amore. Passarono minuti nei quali la personalità del nostro giovanissimo amico venne completamente distrutta e con essa, il già inesistente amor proprio.
Quasi un anno dopo, lo studente si ritrovava ancora in quella medesima posizione, ma in una situazione completamente diversa. Qualche mese prima era stato seminato dal di lui padre un piccolo seme che avrebbe, germogliando, fatto esplodere l’amore per i libri al nostro studente. Infatti, in regalo, gli era arrivato “Se questo è un uomo” di Primo Levi. Lo aveva finito in un batter d’occhio e, amandolo, aveva iniziato a collezionare libri su libri.
Ritrovandosi in quella biblioteca a scegliere libri, un anno dopo, aveva preso furbamente proprio quella prima lettura, giocando sul fatto che già la conoscesse. Interrogato, non aveva, però, considerato due fattori: la sua personalità era già ormai irrimediabilmente distrutta dalla consapevolezza di non poter essere in nessun caso amato e che alla professoressa, dimostratasi davvero preparata (conosceva alla perfezione qualsiasi lettura), non interessava insegnar qualcosa a quello studente, ma solo umiliarlo.
Trovandolo preparato, infatti, si era divertita a metterlo ancor più in difficoltà, ponendo domande sempre più difficili. Alla fine dell’interrogazione, tronfia della magra consolazione di averla spuntata in quella lotta impari e di aver per l’ennesima volta mortificato il nostro protagonista, aveva terminato facendo capire che tutto quell’atteggiamento arrogante era dipeso da un singolo episodio accaduto un anno prima. La medesima, infatti, l’aveva udito, in una discussione con i propri compagni, dire che era politicamente (per quanto un bambino possa capirne) di destra come il proprio nonno.
Fosse quella la vera ragione o fosse una scusante, non è dato saperlo. Da questa piccola storia possiamo trarre alcune importantissime conclusioni.
L’esperienza, come qualsiasi cosa possa accadere nel nostro percorso di vita, era portatrice di insegnamenti erronei e corretti. In un’anima tormentata e già logora come quella del nostro protagonista aveva avuto effetti negativi: egliaveva imparato, infatti, che per quanto potesse impegnarsi, lui non era una persona capace. Non era degno d’amore, in nessuna forma, perché sbagliato. Gli era impossibile essere sé stesso o, comunque, esprimere le proprie idee (in caso contrario a quanto poc’anzi detto).
Avrebbe dovuto imparare ben altro: in primis, che preparazione scolastica non è sinonimo di intelligenza emotiva. Anzi.
Tale assunto è dimostrato dalla totale assenza di empatia ovvero dall’incapacità di portar avanti una comunicazione assertiva, ancorché in presenza di una opinione differente (sempre fosse questa la motivazione), caratteristiche fondamentali, ancor più essenziali per chi decide di esser insegnante. La stessa, infatti, ha perso l’occasione di dimostrare, ergendosi ad esempio da seguire, cosa significhi essere aperti nell’accogliere un’opinione altrui.
Se il comportamento adottato dall’insegnante, invece, fosse stato il frutto di angherie subite dalla stessa, che, cresciuta, ha optato per diventare a sua volta una carnefice, incapace di elaborare la propria ferita, assumendosi la responsabilità di procurare ad altri la sua stessa cicatrice putrescente…. Il nostro piccolo amico, ormai cresciuto, ha saputo farlo. Forse non è guarito, ma ha deciso di elaborare le vicende in maniera differente.
Non odia più quella professoressa, perché nonostante quanto subito ha potuto grazie a lei imparare proprio questi ultimi aspetti. Non prova più alcun rancore, perché ha imparato concetti quali analfabetismo emotivo, mancanza di guarigione delle ferite del non amore ed empatia. Quest’ultimo aspetto, in particolare, insegna a comprendere le altrui reazioni e opinioni, alla luce di quello che probabilmente queste persone sono oggi. Il risultato, dunque, delle proprie esperienze, anche traumatiche.
Del resto, come ho già detto, e vorrei ripetere a conclusione: “La ferita che il non amore ci ha inferto è il ventre dal quale veniamo generati molte volte” (Peter Schellenbaum, “La ferita dei non amati”).