RIFLESSO

RIFLESSO

Autore: Stefano Luigi Cantoni

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Marco Gelli aveva avuto una giornata piuttosto dura al giornale e, una volta uscito dalla redazione, iniziò a pregustare il solito bicchiere di Lagrein, abitudine divenuta presto irrinunciabile nelle sue solitarie serate. Una volta messo piede nel suo bilocale al civico 144 di via Vincenzo Monti, mollò valigetta e cappotto e accese la luce del cucinino, tirando fuori dal frigo il resto del pranzo. Si levò la camicia e si infilò un pile color kaki prima di adagiarsi sul suo piccolo divano con la cena riscaldata e il vino già versato nel calice.                                                                                              Si era sempre considerato un uomo tranquillo, senza grilli per la testa, discreto ed equilibrato a tal punto da dare l’impressione di essere, talvolta, addirittura apatico. Ogni angolo di quel piccolo appartamento rispecchiava la sua personalità pacata e schiva. Insomma, una persona ordinaria con una vita del tutto ordinaria. Fece per accendere la televisione quando il suo sguardo cadde sul comò a pochi metri da lui. Non era solito interessarsi né preoccuparsi troppo delle piccole “deviazioni” alla monotonia delle sue giornate, ma stavolta percepì un senso di disagio che iniziava a salirgli lungo la spina dorsale. Appoggiò il calice sul tavolino e si avvicinò lentamente al comò, fermando il suo sguardo su di un portacenere.                                                                                                         Che diavolo ci faceva un portacenere a casa sua?                                                                                    Non fumava e, contando l’indole solitaria che lo aveva sempre contraddistinto, casa sua non era certo frequentata. Ignorando il sudore che iniziava a imperlargli fronte e mani, sollevò l’oggetto e trasalì: un origami a forma di cigno, grosso quanto un palmo di mano, fece capolino davanti ai suoi occhi increduli. Lo aprì e lesse le poche parole scritte a matita in un corsivo quasi illeggibile: “Vediamo solo immagini allo specchio, non siamo che effimere copie di noi stessi.”                                Si sedette con il foglio in mano e gli occhi fissi sul portacenere, stordito. Sentì l’ansia salirgli lentamente dalle caviglie fino ad annodarsi in gola, a guisa di groppo. Il cuore iniziò ad accelerare e un rivolo di sudore gli imperlò la fronte: quell’oggetto all’apparenza insignificante, col passare dei secondi, andava via via assumendo le sembianze delle sue più recondite paure. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori alla stregua di un robot, perdendosi nelle luci serali di quella città tentacolare e assieme regolare nella sua costruzione. Il suo bilocale si collocava perfettamente all’interno di quella struttura geometrica di vetro e cemento nella quale, da anni, era abituato a muoversi in sicurezza e autonomia, tra via Barni e la vicina redazione dove lavorava. Quella sera, per la prima volta, si sentì tutto a un tratto un pesce fuor d’acqua, come se quel quartiere residenziale di cui conosceva ogni metro quadrato non gli appartenesse più. Improvvisamente, si sentì solo. E vulnerabile.                                                                                                                                      Dopo una manciata di minuti si trovava già alla guida della sua auto in direzione sud, cercando di ignorare quel pugno sordo che gli rovistava nello stomaco a guisa del peggiore dei presentimenti. Domande su domande lo assillavano, mentre scalava nervosamente le marce sulla circonvallazione esterna: che diavolo stava succedendo? Si stropicciò gli occhi e si diede un pizzicotto, nella speranza di svegliarsi da quello che pareva uno di quei sogni introspettivi e intensi in cui, troppo spesso, si imbatteva da qualche settimana a quella parte. Il clacson di un fuoristrada lo riportò alla realtà, destandolo da cupi pensieri e irreali supposizioni. Gli sovvenne il passo di un romanzo che aveva finito da poco, in cui il protagonista si ritrova invischiato in una congiura dalla quale non v’è apparente via d’uscita. “Milano è una pantera sorniona che ti sorride vogliosa, per poi azzannarti non appena osi avvicinarti al suo corpo perfetto. È però, al tempo stesso, un incrocio di destini, errori e opportunità.” Per un attimo, ebbe come l’impressione che il messaggio che aveva trovato sull’ origami fosse intrinsecamente collegato a quella frase riportata nel libro. “Sto delirando”, pensò. Mise la freccia a destra per svoltare quando il suo cellulare squillò, facendolo sobbalzare sul sedile. Accostò a bordo strada e rispose al numero anonimo. «Parlo con il signor Gelli?»    «Sì, sono io. Chi parla?»                                                                                                                                                     «Buonasera, mi chiamo Brian e la sto chiamando per conto della Dream&Dream, lei è stato selezionato per partecipare all’estrazione di numerosi premi. Deve solo rispondere a una domanda.» «Guardi non ho tempo, mi spiace.»                                                                                                          Mise giù e ripartì, sbuffando. “Razza di rompicoglioni” borbottò tra sé e sé mentre imboccava viale Famagosta. Ancora una manciata di minuti e sarebbe arrivato a casa di suo cognato, dove avrebbe avuto tutte le risposte che cercava, almeno così sperava. Da qualche minuto, infatti, aveva iniziato ad alimentarsi in lui il sospetto che solo uno stronzo come Gianni poteva avergli fatto uno scherzo del genere. Era sempre stato un guascone e, nondimeno, si era spesso preso gioco di lui, reputandolo uno sfigato senza palle né futuro. Diciamo che, per usare un eufemismo, non si stimavano troppo. Se lo immaginò piegato in due dalle risate assieme al figlioletto adolescente, tutto brufoli e arroganza. Del resto, la mela non cade lontano dall’albero, pensò. Stavolta gliele avrebbe cantate, sissignore. Parcheggiò la macchina davanti alla villetta con ritrovata sicurezza, come se il dubbio della colpevolezza del cognato fosse già divenuto certezza, liberandolo da paturnie e paure legate alle infinite spiegazioni che quell’origami aveva inizialmente scatenato in lui, scalfendone la corazza impenetrabile di cui era solito vestirsi ogni santo giorno. Suonò il campanello con impazienza, con la sola volontà di liberarsi il più in fretta possibile di quel fastidio e tornarsene a casa a bere il suo dannato calice di vino. Dopo una decina di secondi pigiò per la seconda volta, ricevendo in cambio un assordante silenzio. “Ora lo sveglio io quello stronzo, così impara.” Prese in mano il telefono e fece per comporre il numero del cognato quando un tintinnio notificò un messaggio in entrata. Era sua sorella. Lo aprì e, nel leggerlo, il suo cuore si fermò per un istante: “Gianni è stato aggredito, ora si trova al Niguarda. Ci vediamo là. Sara.”                                               Tutto a un tratto, attorno a lui tornò solo il suono ovattato delle auto in lontananza, proprio mentre il telefono parve sul punto di cadergli dalle mani. Quella storia iniziava ad agitarlo oltremodo, facendolo lavorare d’immaginazione e congetture che altro non produssero se non un quadro confuso dalle tinte fosche e cupe. Alla stregua di un automa si rimise in auto e, dopo quasi mezz’ora di guida tra i comignoli fumanti, giunse all’ospedale. Parcheggiò e spense il motore, scendendo con fare trafelato. Mosse a passo spedito verso l’accettazione, incurante del disagio che, a guisa di tenaglia, aveva cominciato a rovistargli nelle budella. Una volta all’interno, un violento capogiro lo colse senza preavviso, facendolo barcollare. Si attaccò al distributore di bevande per evitare di finire a terra, controllando a malapena un crescente senso di nausea. L’interno dell’ospedale era esattamente uguale al suo appartamento, per filo e per segno. La tv, il divano, il cucinino, tutto era posizionato proprio come in via Monti 144.                                                                                               Non era vero.                                                                                                                                                Non poteva esserlo.                                                                                                                     Inspirò un paio di volte asciugandosi con la manica il sudore che, copioso, gli imperlava la fronte scendendo via via sulle guance ispide. Percepì chiara una scossa gelida lungo la spina dorsale che fece vibrare le sue membra come canne al vento. Si guardò attorno, incapace di muoversi. L’accettazione era deserta e l’ambiente, illuminato da qualche neon, era avvolto da un silenzio surreale. “Svegliati Marco” pensò, tirandosi uno schiaffo ben assestato. Nulla, ancora tutto lì, dannatamente fermo, come se quell’insieme di sedie, tavoli e corsie fosse lì da secoli. Mosse qualche passo tremante verso il bagno per sciacquarsi la faccia quando un sibilo fresco lo fece voltare di scatto, paralizzandolo.                                                                                                       «Ehilà, c’è qualcuno?» chiese con un filo di voce. Il silenzio divenne ancora più assordante, provocandogli un insopportabile fischio alle orecchie. Riprese a camminare e, giunto alla toilette, aprì l’acqua e se la buttò in faccia, incurante degli abiti che indossava, ormai madidi di sudore. Si asciugò e fece ritorno nel grande atrio, sedendo su una delle poltroncine di fronte al banco dell’accettazione. Tutto a un tratto, un rumore di passi lo fece trasalire.                                                 In fondo al corridoio scorse la figura claudicante e stanca di un uomo sulla quarantina vestito in modo piuttosto anonimo che, con passo lento e trascinato, iniziò a muovere nella sua direzione. Fissò quella curiosa figura colto da una strana sensazione, come se la conoscesse da sempre. A mano a mano che essa si avvicinava, i battiti del suo cuore aumentavano. Percepì di nuovo quel senso di disagio che l’aveva colto nel parcheggio, stavolta più intenso di prima. Un presentimento terrificante pervase ogni centimetro di pelle e ogni singola cellula del suo corpo. Giunto a pochi passi da lui, il misterioso individuo si levò cappello, sciarpa e occhiali scuri e restò in piedi, fissandolo.                                                                                                                                Nell’incappare in quel volto, il terrore si impadronì di Marco Gelli, strozzandogli in gola un urlo.   Di fronte a sé, in quella sala deserta, avvolto dal più rumoroso dei silenzi, non v’era altro che la sua immagine riflessa che lo scrutava, intenta a squadrarne ogni singolo respiro e moto d’animo. Fece per alzarsi, ma le gambe gli cedettero, poco prima che il buio lo avvolse nel suo vaporoso mantello. Quando riaprì gli occhi, si ritrovò a terra sul tappeto di casa, con la tv accesa. Frugò in tasca in cerca del telefono, lo tirò fuori e scorse i messaggi.                                                                          Di Sara non v’era traccia. Controllò le chiamate in entrata, anche qui nessun numero strano. Si alzò e frugò nella tasca della giacca, le chiavi dell’auto erano ancora lì. Lanciò infine uno sguardo al comò di fianco alla tv. Nessun portacenere e nessun origami. Inspirò un paio di volte, asciugandosi il sudore che copioso gli grondava dalla fronte.                                                                                 Si avvicinò stralunato alla finestra e, osservando il suo volto riflesso nel vetro, un senso inaspettato di quiete lo pervase da capo a piedi, rasserenandolo.                                                                     Fu solo allora che un tiepido sorriso, rassicurante e familiare, lo accompagnò tra le morbide braccia di Morfeo.