Autore:Viviana Moretti
Era una mattinata domenicale nel momento più bello della primavera. Avevo preso l’abitudine di andare in piscina intorno alle nove, a quell’ora di domenica non c’era nessuno. Mi piaceva avere la vasca quasi tutta per me, non dovermi confrontare con gli altri, mettermi a pensare se fossi diventata abbastanza brava, abbastanza veloce, precisa nella tecnica, o se invece dopo tanti anni di pratica non fossi rimasta poco più che una dilettante. Quella domenica mattina avevo avvertito qualcosa di strano da subito: Enrica, mia sorella maggiore di tre anni, contrariamente a quanto faceva di solito, era rimasta a letto, dando mostra di grande stanchezza.
“Non mi va di fare colazione presto oggi” aveva mormorato tirando appena fuori la testa dal lenzuolo “Non preoccuparti per me, vai in piscina. Io resto un altro po’ a letto “aveva detto restando con gli occhi chiusi.
“Sicura di non volerti alzare?” avevo chiesto già apprensiva, ma tentando di dissimulare.
“Sicurissima, vai, ci vediamo dopo” gli occhi sempre chiusi, mentre ricacciava la testa sotto al lenzuolo. Arrivata negli spogliatoi mi ero cambiata e Bum bum bum nel petto un’improvvisa scarica di tachicardia, apparentemente ingiustificata.
Sarà ansia, non devo farci caso mi ero ammonita, tentando di ignorare la ridda di sensazioni malevole che si susseguivano vorticosamente. Avrei voluto continuare il mio rituale preparatorio, ma ero come paralizzata. Mi resi conto di essere terrorizzata. Ebbi la netta sensazione che stesse accadendo qualcosa di irreparabile. Dovevo rientrare a casa il prima possibile. Enrica quel giorno aveva programmato tutto. Non aveva avuto il coraggio di fare colazione con me, guardarmi negli occhi fingendo normalità, sapendo che di lì a poco avrebbe tentato di farla finita. Secondo i suoi calcoli quel cocktail di psicofarmaci che aveva avuto il coraggio di ingurgitare tutto d’un fiato, avrebbe fatto sufficienti danni prima che potessi salvarla. Ma io ero tornata prima. Dopo l’incidente (non so proprio perché continuassimo a chiamarlo così, dal momento che di tutto si era trattato fuorché di quello), Enrica era diventata un’altra persona. Aveva deciso di tagliarsi i capelli, se li era fatti corti, molto corti e a me era dispiaciuto non poco, soprattutto perché avevo sempre ammirato quei suoi capelli grossi e lucidi, una chioma bionda naturale che faceva invidia a chiunque. Inoltre si era chiusa ancora di più, ostile e silenziosa sembrava avercela con il mondo intero e soprattutto con me.
“Così non li devo pettinare” aveva spiegato con voce annoiata “non preoccuparti per me, io sto bene. Non siamo in uno di quei romanzi scontati in cui la protagonista si rapa a zero per espiare eventuali sensi di colpa” aveva ironizzato con tono saccente. Aveva la capacità di pungermi sul vivo, entrare a gamba tesa nelle faccende più delicate, senza sprecarsi di utilizzare il minimo tatto. Ed ora tre mesi dopo, era di nuovo domenica, e le cose non avevano fatto che peggiorare. Non ero neppure riuscita a scoprire perché mia sorella avesse tentato il suicidio. Non c’era stato verso di fare breccia in lei per indurla a confidarsi con me. Era cambiata dopo aver cominciato a frequentare il corso per diventare grafica pubblicitaria, ed io ero certa che tutto fosse scaturito da lì. Sentii le lacrime sgorgarmi sulle guance, copiose e inarrestabili mi bagnarono il volto ed io non feci nulla per nasconderle. Non ce la facevo più.
“Che ti succede?” mi chiese Enrica con un malcelato velo di preoccupazione nella voce. L’ultima volta che mi aveva visto piangere eravamo due ragazzine.
“Non credi che sarebbe ora di finirla?” sbottai non riuscendo più a reggere quella tensione.
“Va bene. Facciamola finita una volta per tutte. Ho fatto una cosa terribile.” E si nascose il volto tra le mani, scuotendo pesantemente il capo. Poi mi raccontò tutto.
Giorgio, Pino e Andrea erano dei compagni di corso di Enrica che in classe facevano il bello ed il cattivo tempo a loro piacimento. Giorgio si esibiva con battute fuori luogo e continue interruzioni durante le lezioni. Andrea si faceva beffe a voce alta di tutto e tutti, vuoi per l’aspetto fisico, vuoi per il modo di vestire, l’importante era riuscire a sottomettere psicologicamente più persone possibili. Pino che era il leader, impartiva istruzioni su chi dovesse fare cosa. La parte maschile della classe, forse per non avere problemi, faceva finta di divertirsi. O magari si divertiva davvero. Nella parte femminile invece, un paio di ragazze mostravano riprovazione, altre ci ridevano a crepapelle e altre ancora facevano le indifferenti, e tra queste c’era anche Enrica.
“L’ho fatto per non essere presa di mira, ero terrorizzata, non sapevo che cosa fare” si giustificò. Poi un giorno Pino l’aveva avvicinata: “Lo sai che sei bella? E poi mi piace la tua roba, disegni bene.” Lei gli aveva sorriso e si era sentita importante. Per la prima volta era dalla parte dei vincenti, per la prima volta non era seduta tra i perdenti. Non poteva crederci. Poi lui l’aveva accompagnata a casa in motorino, facendola salire proprio davanti scuola e prima di partire le aveva dato un bacio plateale che aveva destato un certo scalpore. Da quel momento in poi, anche le ragazze avevano cominciato a trattarla con un certo riguardo. Tutte tranne Claudia. Resisteva strenuamente lei, mostrava apertamente il suo dissenso, elargiva sguardi di disprezzo, invocava che si facesse silenzio almeno durante le esercitazioni. E per di più era brava, probabilmente la migliore della classe, irritantemente dotata con quella sua aria professorale. Poi un giorno Claudia esagerò per davvero, e la fece grossa. Andò in direzione a denunciare che cosa accadeva in quella classe, fece nomi e cognomi, parlò di bullismo e di aggressività passiva ai danni di chi non partecipava, avvertì che avrebbe presentato un esposto ai carabinieri. I tre incriminati vennero convocati in direzione e ammoniti pesantemente.
“Bisogna fargliela pagare a quella puttana, è stata lei a spifferare tutto, non ci sono dubbi” aveva sentenziato inviperito Pino.
“Sì, ma dobbiamo stare attenti, siamo sott’occhio” aveva debolmente protestato Giorgio.
“E chi se ne frega, io non aspetto i comodi di nessuno, non si doveva azzardare! È meglio che capisca subito con chi ha che fare” aveva rincarato la dose Pino. E così avevano coinvolto Enrica chiedendole di dare una mano.
“Dai ragazzi non scherziamo, ho sentito che intenzioni avete. Io non partecipo” Ma poi si era fatta convincere. Quei tre avevano giurato sui loro più cari affetti di volersi scusare e basta. Sapevano che il giovedì sera andava a pilates – ne aveva parlato lei una volta in classe – ma non aveva detto l’orario preciso. Bisognava armarsi di pazienza ed aspettare. Si appostarono per circa due ore stipati nell’utilitaria di Giorgio. Finalmente Claudia arrivò, parcheggiò l’auto, scese con la borsa della palestra già a tracolla e l’aria stanca, e mentre cercava le chiavi di casa si sentì chiamare da una voce femminile che le sembrò subito di conoscere “Claudia scusami se piombo qui così, ti posso parlare un momento?”
“Ma chi sei, Enrica?” aveva supposto cercando di mettere a fuoco quella figura in penombra “Come mai sei qui?” Era talmente in buona fede che non aveva neppure chiesto chi le avesse dato il suo indirizzo. Non poteva sapere che Giorgio il giorno prima l’aveva seguita fino a casa.
“Sono io sì. È importante, di devo parlare?”
Poi tutto era accaduto in fretta, molto in fretta. Giorgio era sbucato alle spalle di Claudia, con gesto fulmineo le aveva tolto la borsa della palestra e l’aveva gettata in terra, e subito dopo le aveva passato il braccio destro sotto al mento per impedirle di muoversi, mentre con il sinistro le chiudeva la bocca.
Dopo venne fuori Andrea che incominciò a frugare nelle tasche del giubbotto di Claudia alla ricerca delle chiavi della macchina. Le trovò, aprì lo sportello posteriore destro e fece cenno a Giorgio di trascinarla dentro.
“Dai entra prima tu e buttala dentro, non mollare la presa, sennò questa infame si mette a gridare” aveva disposto Andrea con voce gelida, quasi fosse abituato a situazioni come quella.
Claudia provava a divincolarsi, tentava di urlare, ma non c’era niente da fare contro la calma e la forza ostentate dal branco. Poi aveva fatto il suo arrivo trionfale Pino, con passi rapidi e felpati aveva raggiunto gli altri, ma prima si era fermato accanto ad Enrica, le aveva fatto l’occhietto e le aveva fatto cenno di restare zitta. Enrica era rimasta immobile, come inebetita ed aveva avuto un tuffo al cuore vedendo Pino slacciarsi i pantaloni e tirarsi giù gli slip per poi inginocchiarsi sul sedile, proprio davanti agli occhi terrorizzati di Claudia.
“Ora la violentano ho pensato, e non ho mosso un dito. Ti rendi conto? Credevo che l’avrebbero stuprata, e non avrei fatto nulla per fermarli. Sono un mostro anche peggio di loro!” aveva urlato Enrica mentre mi raccontava l’epilogo di quella serata di pazzia e furore cieco.
“Dai troia guardatelo bene il mio attrezzo, non credo ti capitino spesso arnesi così. Ma chi se la scopa una puttana brutta come te? Fai schifo a chiunque, dai retta a me” e giù a ridere, tutti e tre, il branco coeso “Allora, lo vuoi assaggiare? Hai voglia vero? Schifosa che non sei altro!” e con uno scatto fece l’atto di avventarsi su di lei.
“Ho chiuso gli occhi ed ho pensato che l’avrebbe fatto per davvero, ma che io non volevo guardare. Capisci? Tutto ciò che mi interessava era non guardare, salvaguardare me stessa e basta. Ma che razza di persona fa una cosa del genere? Dimmelo tu!” singhiozzava Enrica.
Poi Pino inaspettatamente si era tirato su, si era fatto un’altra bella risata e mentre si ricomponeva aveva avvisato Claudia: “Mi dispiace per te, ma pure per stasera resti a becco asciutto. Non mi va di sporcarmi con una come te. Vedi di non costringermi a tornare, perché la prossima volta potrebbe finire in modo molto diverso. Pensa ai fatti tuoi, chiaro?”
“L’ho sentita singhiozzare, si capiva che aveva avuto tanta paura, ma io non ho avuto il coraggio di andare da lei ed aiutarla. Mi disprezzi vero?” mi chiese bruscamente.
“No. Ma ho bisogno che tu faccia qualcosa per riconquistare la mia fiducia. Dimostrami di essere ancora quella di un tempo. Quello che hai fatto non si può cancellare, ma puoi fare ammenda. Però prima devi perdonare te stessa, o sarà tutto inutile” dissi cercando di mantenere la calma. Ero sconvolta, ma non potevo lasciare che Enrica se ne accorgesse.
“Non posso perdonarmi. Ti rendi conto di quello che ho fatto? Soltanto perché mi avevano fatta sentire importante mi sono ritrovata ad essere pronta a tutto. Ma che campa a fare una come me?” gridò Enrica prorompendo in un pianto dirotto.
Ma io resistetti e non la consolai, se non fossi andata in fondo alla faccenda ora, non ce l’avrei fatta mai più.
“Allora se non puoi perdonarti tu, lascia che siano gli altri a farlo. Io ti perdono.” Mi avvicinai a lei, ci abbracciammo ed io lasciai che continuasse a piangere disperatamente sulla mia spalla. “Ma non basta” aggiunsi. Lei sollevò la testa e mi guardò in modo interrogativo “Che vuoi dire?” domandò timorosa.
“Non pensi che dovresti trovare il coraggio di chiedere perdono a Claudia? Dirle che testimonierai se vorrà denunciare?” Lei si asciugò gli occhi ed annuì lentamente.
“Devo andarci da sola “mormorò Enrica dopo che ebbi parcheggiato l’auto “Tu aspettami qui, mi fa bene sapere che ci sei, ma è una cosa che devo riuscire a fare da sola.” Mi sorrise e scese subito dalla macchina. Si avviò, e mentre raggiungeva il portone, si voltò due o tre volte a guardarmi. Le feci cenno con la testa di proseguire, ce l’avrebbe fatta. La guardai cercare il cognome di Claudia sul citofono e mi intenerii come una mamma che osservi il proprio bambino cavarsela da solo il primo giorno di scuola, il primo passo verso l’autonomia dell’età adulta. Nonostante tutto, ero decisamente fiera di mia sorella.