Autore: Stefano Luigi Cantoni
Da scrittore emergente, spesso una domanda mi rimbomba in testa come un mantra ritmato e suadente: cosa succederebbe se dovessi vincere un premio letterario? Può davvero un riconoscimento blasonato svoltare in modo definitivo le sorti di un narratore? Nel cercare una risposta a questi interrogativi, credo sia utile soffermarsi un poco sul rapporto che sussiste tra un autore e la propria opera. Sì, perché è da qui che si diramano una serie di concatenazioni e conseguenze che, a partire da un triste insuccesso per giungere alla più fulgida vittoria, racchiudono l’essenza stessa della scrittura.
Che il primo posto in un premio letterario stimato e riconosciuto possa fungere da trampolino di lancio verso un’affermazione e un conseguente aumento delle vendite credo sia scontato, anche se non sono così certo che comporti anche una proporzionale credibilità. Mi spiego meglio: vincere fa girare il nome, la faccia e il titolo, insomma aggiunge peso alla forma e alla sostanza stessa dello scrittore in questione. Una vittoria allo Strega o al Campiello, per citarne due, proietta il fortunato e meritevole narratore in un vortice di flash, interviste, recensioni a livello nazionale, contratti sventolati sotto il naso e chissà che altro.
Chi non lo vorrebbe! Una svolta esistenziale unica che, però, nasconde qualche insidia, a partire dalla sopracitata credibilità. Un conto è vincere, un conto è convincere. Certo, se guardiamo lo storico dei vincitori (e dei finalisti) dei più stimati e ambiti premi letterari del Paese la qualità è stratosferica e invidiabile, per cui su questo c’è ben poco da discutere, al massimo solo da leggere e imparare dai maestri. Il mio dubbio, o meglio la mia provocazione, verte però su di un altro aspetto, leggermente “sbilenco” rispetto alla linearità di un più comune pensare: la fama e la notorietà come si incastrano con l’istinto di gelosia propria di ogni scrittore (qui immaginato come custode scontroso della propria opera)? Ovviamente il successo risolve moltissime cose, tramutando dubbi decennali e insicurezze ataviche in solide e luminose certezze, il tutto nel batter d’ali di qualche flash. Una meraviglia, e lo dico con il cuore in mano. Non potrei ambire a miglior sorte, in tal senso. Ma siccome voglio capirci di più, mi sforzo di trovare uno spunto provocatorio, o perlomeno di crescita collettiva: se la vittoria non fosse una piena affermazione ma solo un effimero spettacolo di pochi attimi? Se quel nome accanto al numero uno della classifica finale non fosse altro che una semplice unione di lettere fini a se stesse? Supposizioni di uno scrittore emergente, state tranquilli, nulla di che preoccuparsi. A meno che sotto sotto, una volta pulita la superficie fatta di vendite e riconoscimenti, dietro quel nome non resti che il vuoto. Un vuoto ben lontano dai contenuti ricchi e necessari di cui ogni opera degna di un così alto premio deve disporre in giusta quantità. Non è per caso che, come disse un certo scrittore e filosofo di Alessandria proprio nella sua più celebre opera (vincitrice, guarda caso, del premio Strega), nomina nuda tenemus (non ci restano che semplici nomi…)?