Autore: Stefano Luigi Cantoni
Di rientro da un weekend nella capitale francese non mi posso esimere da alcune (curiose) riflessioni, legate perlopiù a un tema a me carissimo: la mercificazione dell’arte. Nei tre giorni trascorsi a Parigi (terza volta per me, ma ogni viaggio è una riscoperta) mi sono imbattuto in situazioni o, meglio, interrogativi che mi stanno levando il sonno: può questo mondo veloce, gretto e trituratore assorbire a tal punto ogni forma di bellezza da renderla quasi fastidiosa, banale e persino ansiogena?
Troppo netta mi è parsa la differenza di tempo e velocità che sussiste non solo tra i luoghi d’arte della capitale francese, ma anche e soprattutto nel modo di approcciare questi spazi che, essendo figli e custodi d’arte e storia, per antonomasia non dovrebbero risentire degli effetti negativi dello scorrere del tempo.
Innegabile e indimenticabile è la morbida, elegante, sicura e al tempo stesso soave lentezza del Musee de Moyen Age: un luogo fuori dal tempo di fronte alla Sorbona che, oltre a innervare di storia e memorabilia il Quartiere Latino, dona a chi entra il privilegio del silenzio, della calma, della riflessione. Ma, come diceva qualcuno, non son più tempi per cavalieri…
Infatti i tempi sono maturi (non fatemi dire marci, vi prego) per chi corre, scatta, urla, sbraccia e spintona: proprio come al Louvre. Ora, sui capolavori contenuti in questo edificio straordinario nessuno ha da ridire: alcune pitture che ho ammirato levano il fiato, e persino gli occhi. Ma ciò che mi ha levato il senno (per fortuna solo per una mezzora o poco più) è stato il centro commerciale sotterraneo con le boutique: degno del peggior film horror.
Baudelaire si accorse troppo tardi (forse perché anche lui parte dell’ingranaggio) che l’arte era divenuta riproducibile, vera e propria fonte di denaro, sancendo in modo inderogabile la fine del ruolo del poeta-vate.
Senza voler scomodare Charles, le cui letture mi hanno consolato e coccolato per lunghe notti fumose e melanconiche, anche a me è parso di sentire un rumore strano per terra, come di un’aureola calpestata da una serie di umani intenti a fare selfie con la Gioconda o lanciare bolle di sapone e palloncini dinanzi al Sacré-Coeur a Montmartre.
Il mondo di oggi necessità di velocità e resa economica immediata, il che rende ancor più difficile la fruizione di alcuni capolavori che, invece, meriterebbero solo il tempo necessario (inteso come spazio-tempo) per poter essere apprezzati, goduti, assimilati. Un Pier Della Francesca o un Leonardo della ressa e dei bastoni per l’autoscatto da postare su Instagram se ne fregano, eppure ne sono parte o, addirittura, (sto per bestemmiare!) ne sono quasi la causa.
Si, perché l’arte-merce, intesa come fenomeno fruibile a tutti purchè si paghi, ha il rovescio della medaglia che, spesso, è più doloroso e deludente del “lato lucente”. Ma, come dicevano i latini, cui prodest? (a chi giova?)
A me no di certo, succube della mia ansia da calca e nondimeno avido di scoprire, riflettere, soffermarmi su un quadro o una scultura senza un gomito nei reni o un bambino che tira calci o, peggio, un telefono piantato in testa per una foto “instagrammabile.”
Che il mondo di oggi viaggi con il proprio folle tempo è noto: non sarò io a fermarlo e nemmeno lo voglio fare, pur riconoscendo che faccio fatica a “tenere il ritmo”. Ma, col cuore in mano, vi chiedo di pensare a loro, alle opere d’arte: figlie del tempo, custodi del tempo, e (almeno loro) indifferenti al tempo.