Autore: Lorenzo Grazzi
Siamo sul pianeta da qualche migliaio di anni ma ancora facciamo fatica a vivere insieme. Ci sentiamo ripetere che “l’uomo è un animale socievole” ma poi leggiamo di Hikikimori, i ragazzi giapponesi che si chiudono in casa e rifiutano contatti col mondo esterno… non lasciamoci ingannare, però, sebbene il fenomeno sia stato definito in Giappone, è ormai registrato in tutto il mondo.
Ci sono poi i misantropi che pur non rinchiudendosi cercano di limitare i rapporti interpersonali e coltivano invece il loro mondo interiore.
Insomma, per essere un animale socievole fatichiamo non poco a vivere in gruppo.
Ma poi, a parte vivere ammassati, che tipo di rapporti abbiamo? Esiste davvero uno scambio che dia valore alla comunità oppure stiamo insieme semplicemente per necessità?
Spesso frequentiamo i luoghi di lavoro e interagiamo con decine di colleghi o clienti al giorno, magari scambiamo battute, forse confidenze, ma esisterebbe tutto questo se non fossimo incatenati a un sistema economico che ci impone di lavorare e quindi di frequentare per obbligo quelle persone? In altre parole: se non fossimo costretti per interesse a condividere le stesse aree, lo faremmo?
Ci sono poi i luoghi pubblici dove la gente sceglie di andare: piazze, luoghi commerciali, luoghi turistici, concerti, locali… quante persone abbiamo incontrato sulla nostra spiaggia di fiducia? O al concerto di quel cantante che tanto amiamo? O alla presentazione di quel libro così interessante?
Decine, centinaia (forse addirittura migliaia), ma quanti rapporti abbiamo costruito?
Non parliamo poi delle difficoltà di interazione che la vita in società comporta: la discriminazione per orientamento sessuale, colore della pelle, genere, origine, lingua… tendiamo a etichettare ogni cosa e a escludere quello che non fa parte del nostro club.
La soluzione che spesso sento proporre è quella di una società più “inclusiva”, una parola che viene gestita molto male, secondo me, e che non potrà sicuramente migliorare la situazione.
“Inclusivo” implica un concetto dominate: un gruppo di individui che manifestano le stesse caratteristiche etiche, fisiche o morali che decide più o meno liberamente di lasciar entrare nella propria cerchia qualcuno di diverso.
Insomma, la discriminazione rimane ma viene accettata, tollerata.
Si avvalora così un “modo corretto” di esistere, stabilito da una classe dominante che si mostra poi, a sua discrezione, magnanima con il resto del mondo.
Io, ragazzo bianco ti permetto di far parte della mia società anche se sei nero. Insomma, è ovvio che i bianchi siano superiori rispetto ai neri, ma proprio per questo ti consento di entrare nel mio gruppo a patto che rispetti le regole che io ho stabilito. Ti includo nel club se accetti le regole bianche.
Possiamo fare questo gioco con qualunque forma di discriminazione, badate bene… io, uomo etero includo voi omosessuali a patto che teniate un comportamento decoroso (e cosa sia decoroso lo stabilisco io!).
Io donna alta, bionda, magra e tonica come una Schwepps, accetto te, ragazza fuori forma, con i vestiti di seconda mano e la pelle grassa, ma mi sentirò in dovere di darti dei consigli per migliorarti perché nella mia società io sono il prototipo da seguire.
Insomma, inclusivo implica che qualcuno “consenta” a qualcun altro di entrare in un gruppo.
Dal canto mio preferirei una società meno inclusiva e più comprensiva (=prendere con), che accoglie la diversità e cerca di esserne arricchita, che intuisce il potenziale non solo di altri gruppi, ma anche di singoli individui e ne approfitta per una crescita comune.
Facciamo le cose in maniera diversa, ma non è detto che la mia maniera sia migliore della tua, la tua sia migliore della mia o entrambe possano essere migliorate (magari prendendo qualcosa dalla mia e dalla tua!)
Pensiamo alla cucina, maestra di vita per tutti noi e priva di qualunque pregiudizio: in alcune regioni italiane il piatto tipico è la polenta, ma che ne sarebbe stato di quell’orgoglio nazionale se gli altri ingredienti si fossero dimostrati intolleranti alla farina gialla proveniente dall’America? Che ne sarebbe stato del tiramisù se non si fosse accettato il cacao sudamericano o il caffé? Che ne sarebbe della pizza se il pomodoro fosse stato ricacciato oltreoceano perché rifiutava di fare come gli dicevano i legumi nostrani?
La maggior parte dei nostri piatti nazionali non esisterebbe così come la conosciamo.
E la nostra possibilità di scelta?
A chi non piace sperimentare un locale etnico di tanto in tanto? Giapponese, cinese, messicano, argentino… e se poi all’estero avessero fatto la stessa cosa? Tutti i ristoranti italiani che hanno svoltato la vita di molti immigrati che fine avrebbero fatto?
Questa lunga digressione culinaria (che mi ha anche messo fame!) per dirvi che NON dobbiamo essere inclusivi, non dobbiamo pensare che la nostra società sia la migliore di tutte, sia immutabile e debba essere modello per gli altri e patrimonio da difendere a ogni costo.
Concediamoci il lusso di essere morbidi, senza rigidità che si trasformino in catene e ci impediscano di evolvere, di essere altro, di essere di più.
Tutte queste rigidità sono quelle che ci portano, oggi, a dover affrontare problemi sempre più grandi (che vanno dal cambiamento climatico all’inquinamento) difronte ai quali non sappiamo reagire perché non siamo sufficientemente capaci di cambiare abitudini.
Scegliamo di essere liberi… può farci più danno di quello che ci hanno fatto certe catene?