Autore: Stefano Luigi Cantoni
Leggere i classici non solo rappresenta, almeno per il sottoscritto, una piacevole fuga verso orizzonti soffici e intrisi di bellezza senza tempo, ma anche uno spunto letterario e socio-culturale essenziale per migliorare quella che si è soliti definire “vita.” Difficile, per un classicista come me, scegliere tra i molteplici capolavori che la letteratura di ogni epoca ci ha lasciato ma, ecco, se proprio dovessi indicare un’opera che mi ha segnato nel profondo, sceglierei senza titubanza alcuna l’Orlando Furioso, che nel mio cuore di nostalgico sognatore supera al fotofinish l’Odissea.
Ludovico Ariosto compie un’impresa ardua e oltremodo coraggiosa, degna del più valoroso dei guerrieri che animano le pagine del suo capolavoro datato 1516: egli riesce infatti a unire in una sola opera generi letterari e matrici culturali sino ad allora completamente differenti, dando vita a un genere dirompente e innovativo come il poema epico-cavalleresco.
Chi di noi da bambino, almeno una volta o per sentito dire, si è imbattuto nelle vicende di Re Artù o di Lancillotto e Ginevra? Figure eterne, simboli di valori ormai talmente lontani da noi da apparirci, oggigiorno, quantomeno fuori moda. Ma proprio qui sta la grandezza del poeta ferrarese, come quella, del resto, di ogni genio letterario: fornirci la chiave di volta e di lettura per un mondo che cambia e che, al di la della nostalgia, può lasciare dietro di sé precise e consapevoli tracce di senso.
Ariosto, nell’Orlando Furioso, unisce la matrice carolingia (scontri e battaglie, forza e imposizione sul nemico) con quella bretone (cavalleria valorosa e innamorata, esaltazione della donna come angelo salvifico in mezzo all’inferno del quotidiano), dando corpo e anima a un esperimento letterario senza precedenti (e riuscitissimo, aggiungerei senza remore). Ma ciò che fa di quest’opera una delle più alte forme di letteratura è l’introduzione dell’elemento magico e fantasioso: personaggi che appaiono e scompaiono come mossi da un destino superiore e ironico che, alzandone con leggerezza in cielo le armature e gli elmi, pare sottrarli al tempo stesso della narrazione. Il castello incantato del Mago Atlante o l’Ippogrifo sono solo due delle commoventi e mirabili invenzioni dell’Ariosto.
Ma non è finita qui, perché ciò che davvero sconvolge un lettore bramoso di emozioni come il sottoscritto è l’elemento passionale e sensibile che permea ogni ottava del capolavoro ariostesco. Orlando, paladino cristiano agli ordini di Carlo Magno nella lotta contro i Saraceni, per la prima volta sveste i panni del truce e inattaccabile condottiero per vestire quelli, nudi e vulnerabili, dell’essere umano.
L’innamoramento per Angelica non solo rappresenta la sublimazione della forza delle pulsioni che ognuno di noi cela nel profondo, ma anche un ritorno ironico e salvifico alle origini stesse dell’uomo. All’apice della sua follia, momento tra i più alti e mirabili dell’intera letteratura italiana, il nostro eroe si ritrova disperso nei boschi, privato del senno che lo aveva sempre contraddistinto, alla mercè di uccelli, animali selvatici e fronde che gli si appiccicano sulla dorata e folta capigliatura: una resa incondizionata a un volere superiore (il cuore), in grado di piegare armature e spezzare lance.
Ma non è solo questa anticipazione di ciò che saranno le derive letterarie successive (vedi romanzo borghese e naturalista) a sconvolgere, ma la forza del sentimento stesso che muove il protagonista o, meglio, i protagonisti: tutti amano qualcuno o, meglio, qualcosa. Amor vincit omnia, diceva Virgilio, e in Ariosto si può dire che oltre a battere tutto, tale sentimento muove anche tutto: cuore, braccia, gambe, spade, cavalli e persino elementi magici.
Nel socchiudere gli occhi, è lo stesso Ariosto che mi fa sorridere, strappandomi una lacrima come solo i grandi della letteratura sono in grado di fare: primo a rendere vulnerabile ciò che nella cultura medievale rappresentava la perfetta invulnerabilità (la cavalleria), primo a rendere la donna motore dell’azione e non semplice e meritevolissima concupita (Angelica), primo a spedire qualcuno sulla Luna a recuperare il senno di un eroe dai fermissimi principi che, impotente, si arrende inerme alla forza a cui tutti, prima o poi, dobbiamo rendere conto: l’amore.