MISANTROPIA: QUANDO LA FIDUCIA VIENE MENO

MISANTROPIA: QUANDO LA FIDUCIA VIENE MENO

Autore: Lorenzo Grazzi

Se non hai fiducia nella società, nel prossimo e nel futuro potresti essere un misantropo. La buona notizia è che non sei solo e nemmeno pazzo.

La storia dell’uomo è costellata di persone che a un certo punto della loro vita sentono il bisogno di isolarsi, non tanto per trovare se stessi (non tutti sono asceti!), ma perché gli altri non sono alla stessa altezza.

Il misantropo, infatti, soffre di solitudine empatica, si sente culturalmente superiore e usa spesso la sua cultura per elevarsi (e allontanarsi) dagli altri.

Diciamocela, tutti abbiamo avuto un momento nella vita nel quale ci siamo sentiti talmente “oltre” che abbiamo snobbato gli altri. 

Pare che la misantropia diventi quasi normale in particolari fasce d’età: dai 17 ai 21 e, soprattutto, dai 40 ai 50.

Crisi dell’età? Non solo. Questi particolari anni della vita sono quelli nei quali si “aprono gli occhi”, si abbandonano le illusioni (prima dell’adolescenza e poi della giovinezza) e si prende coscienza del mondo che, diciamolo, non è che invogli proprio a dare fiducia.

La realtà percepita, in particolare nei rapporti con gli altri esseri umani, diventa infruttuosa, frustrante, priva di significato al punto da essere preferibile mantenere una distanza anche se non necessariamente fisica.

Se vi sentite in questo stato non vi preoccupate, nella storia sono a migliaia i personaggi che si sono trovati in questa condizione.

La cosa preoccupante della misantropia non credo però sia l’atteggiamento dei soggetti colpiti, ma il dubbio, drammatico, che in realtà siano nel giusto. 

Ci raccontano da sempre che apparteniamo a una specie di animale socievole, bisognoso del “branco” e di interazioni per portare avanti la nostra vita. Ma siamo certi che sia davvero così?

Quanti di voi conoscono coppie che sono letteralmente esplose durante la convivenza forzata a causa del covid? Quanti invece hanno ritrovato la propria armonia familiare a scapito dei rapporti con gli “esterni”?

Non sarà che siamo animali familiari, più che socievoli? Bisognosi di un ristretto e selezionato nucleo di simili con i quali abbiamo affinità per poter vivere al meglio? Le interazioni sociali sono davvero così necessarie?

Intanto chiediamoci se ci rispecchiamo nella società, perché è difficile essere animali socievoli in un contesto nel quale non ci sentiamo del tutto a nostro agio.

Direi che il bullismo, la discriminazione, l’aggregazione del branco (che non ha nulla di sociale ma viene veicolato solo da rapporti di sudditanza) sono sintomi di un malessere generale che serpeggia da sempre e che ci impone stereotipi nei quali siamo costretti a rientrare per non essere esclusi.

Sei grassa, sei gay, sei nero, sono tutti problemi che genera la società: nessuno si preoccuperebbe di quello che è se non ci fosse un pensare comune che addita la diversità e ci impone modelli nei quali, udite udite, nessuno rientra mai davvero.

Hitler, il tappetto coi baffetti, inneggiava alla razza ariana, per dirne una.

Oggi il fenomeno è conosciuto, definito e sempre più diffuso. Il caso più estremo sono gli hikikomori giapponesi, i ragazzi (ma non solo) che si rinchiudono nella propria camera rifiutando qualunque interazione col mondo esterno e socializzando solo attraverso gli schermi.

Saremmo tentati di dire che è normale in una società come quella nipponica che impone standard altissimi e l’esclusione sociale per chi non sta al passo.

Ma veniamo in Europa, in Italia, nelle nostre case. Quanti minuti al giorno passate davanti a uno schermo? Quanto tempo trascorrete chattando con amici più o meno virtuali? Più o meno di quello che passate con amici fisici davanti a una pizza?

Certo, c’è la comodità di essere sul divano e poter parlare comunque con chi ci pare anche se si trova dall’altra parte del mondo. 

Certo, non ci richiede di prepararci per uscire e ci fa risparmiare tempo. 

Certo, possiamo conoscere molta più gente. 

Certo, si tratta di scuse.

Poiché non riusciamo ad avere un atteggiamento da animale sociale, ci raccontiamo che i social (curioso termine, in effetti), possano sopperire a questa mancanza.

Immaginiamo che il covid coincidesse con un pauroso attacco hacker come quello di certi film. Chiusi in casa senza internet. Come pensate che sarebbe andata a finire?

Appena liberati siamo corsi fuori non per socializzare, ma per far sapere a tutti attraverso il telefono, che eravamo liberi. Non c’è fregato proprio nulla di socializzare il nostro stato d’animo, il nostro mondo interiore, volevamo solo far sapere che eravamo pronti a far baldoria (non per divertirci, ma per pubblicare i nostri stati ovunque).

Siamo sicuri di essere un animale sociale? Siamo certi che i misantropi, in fin dei conti, non siano le persone più illuminate del pianeta? Nel nostro profondo, non siamo un po’ tutti delusi dalla società nella quale ci sforziamo di trovare il nostro posto?