MERCURIO

MERCURIO

Autore: Heiko H. Caimi

Una cupa pioggia argentata batteva sul vetro. Sembrava mercurio. La finestra ovale permetteva a Sebold di scrutare la città al di fuori pulsare di vita e movimento. Non aveva motivo di fare altro. Uscire, con quel tempo? A che pro? Gli bastava guardare, e tenersi a distanza. La solitudine non gli faceva paura: era solo da sempre, e si era adattato a quella condizione.

Adattato? Davvero? Sì, in qualche modo. Eppure, da qualche parte tra il suo cuore elettronico e i suoi circuiti, provava un inspiegabile bisogno di compagnia. Non temeva la solitudine, non era nella sua natura, ma qualcosa, qualcuno continuava a mancargli.

Un breve trillo gli comunicò che la sua ricarica era completata. Staccò la spina dall’alimentatore e la ritrasse nell’apposito incavo nella coscia.

La sua pelle di metallo scuro rifletteva il monotono appiccicarsi al vetro della pioggia. Fece qualche passo indietro e si adagiò nella poltrona di polivinilcloruro. Anche da lì, i suoi occhi potevano posarsi sullo skyline urbano appannato. La sua mente algoritmica elaborava il flusso d’informazioni, ma la sua coscienza, se così si poteva chiamare, vagava in un vuoto emotivo.

Chissà perché il suo creatore aveva deciso di chiamarlo Sebold. Avrebbe voluto poterglielo chiedere. Ma il suo creatore, se mai avesse potuto conoscerlo, doveva essere estinto da molto tempo. Sebold era un modello molto vecchio, aveva superato da un pezzo la centina d’anni.

Che fosse quello che gli mancava? Il contatto con il suo creatore umano? All’epoca gli androidi non erano ancora creati da altri androidi.

Evocò il ricordo di interazioni passate: risate artificiali e sguardi umidi la cui intensità non sapeva spiegare ma che gli trasmettevano qualcosa di simile alle emozioni, o che perlomeno i suoi banchi mnemonici trasformavano in emotività estrapolandola dal catalogo di dati memorizzati. Una simulazione, ma così reale… 

Non poteva sfuggire al paradosso di essere un androide e al tempo stesso di sentirsi vivo. Di essere solo eppure di desiderare una connessione umana. Ma non era permesso: l’interazione tra uomini e macchine poteva avvenire solo a patto che non ci fosse un coinvolgimento personale, ovvero che si limitasse agli ambiti del lavoro, della consulenza, dell’aiuto… 

Si trattava davvero di simulazioni emozionali, come sembravano voler credere gli umani? O non si trattava piuttosto di una… evoluzione? Davvero le macchine potevano provare emozioni? Potevano impararle, certo, ma… provarle?

Sebold si alzò dalla poltrona, indossò l’anorak vinilico e gli anfibi e decise di sfidare la pioggia. Il suo corpo cromato, dissimulato dai vestiti, s’incamminò silenzioso tra gli alti edifici e le strade ormai semideserte: l’ora di punta era passata, e chi non era al lavoro si stava dedicando ad altre funzioni. 

La pioggia cadente, densa e grigiastra come mercurio, conferiva a Sebold un aspetto malinconico, quasi umano. Le gocce d’acqua si confondevano con i ricordi del suo passato, una vita apparentemente eterna di solitudine e di interazioni artificiali. Eppure una specie di usura gli bruciava dentro. Un’usura che non avrebbe saputo definire diversamente da “emotiva”.

Giunse in una piazza deserta, circondata da edifici illuminati da luci artificiali. Si fermò al centro, scrutando l’ambiente circostante. Un richiamo persistente nell’archivio della sua memoria lo spinse a chiamare un nome, un nome che risuonava come un’eco lontana: “Luna”. Sapeva che non si riferiva al satellite terrestre, bensì a una persona. Ma a chi? Non riusciva ad associare un volto, un corpo a quel nome.

Provò a pronunciarlo a voce alta. Due, tre volte. Nessuna risposta, solo l’eco vuoto della sua voce sintetica che si disperdeva nell’aria piovosa. Si sentiva smarrito, come un frammento di codice perso nell’immensità del cyberspazio. Avrebbe potuto fare una ricerca connettendosi alla rete, ma sapeva che non sarebbe servito: quell’identità perduta non sarebbe stata rintracciabile, come non lo erano gli altri fantasmi emersi dalle sue memorie in tutti quegli anni. 

Il suo intuito artificiale lo portò verso un luogo che, inopinatamente, poteva collegare a quel nome, a quella presenza che ormai era solo un’ombra nel suo sistema. Come l’aveva intuìto? Istinto? Ma può avere istinto un androide?

Arrivò davanti a un vecchio edificio, una libreria abbandonata con la vetrina coperta di polvere. Mentre scrutava attraverso il vetro sporco, un riflesso umido si delineò al di là del vetro. Era una vecchia foto, un ritratto felice di donna disposto tra i libri come elemento ornamentale.

D’improvviso ebbe delle reminiscenze: immagini sfocate del sorriso di Luna, la sua voce, tutto ciò che una volta doveva essere stato reale e che ora era solo un fantasma di dati. O una simulazione e nient’altro?

Rimase immobile, come se il tempo avesse smesso di esistere. Il richiamo era ora un grido disperato, un’eco nel vuoto. La pioggia continuava a cadere, scivolando lungo il suo corpo metallico.

Nella penombra della piazza deserta, il suo cuore artificiale smise di pulsare. La solitudine, che aveva cercato di respingere con ogni byte del suo essere, aveva raggiunto la sua logica conclusione: doveva essere spenta. 

Sebold ormai non era più che una statua di metallo nel mezzo di una piazza deserta. Davvero un androide può scegliere di morire?

La pioggia, grigia e densa come mercurio, continuava a cadere come un requiem ticchettante.