LAVORO: FATICA O PIACERE?

LAVORO: FATICA O PIACERE?

Autore: Stefano Luigi Cantoni

Immagine di Christina Morillo

Lavorare nobilita l’uomo, dicevano. Ma, direbbe qualcuno, rompe anche le scatole. Già, perché sin dall’antichità il termine lavoro (dal latino labor, non a caso) rifletteva un’attività tutt’altro che piacevole. A ruota, da lì, il tanto caratteristico partenopeo “trova na fatica”, o il francesissimo travail (che tanto ricorda il travaglio del parto, non certo come bere un bicchier d’acqua insomma.)

Tornando a noi, si lavora per vivere (non il contrario, almeno per chi scrive): a meno che il lavoro non piaccia talmente da renderlo ragione stessa di vita e sopravvivenza (approdo ultimo a cui tutti devono aspirare). Il lavoro ci rispecchia in parte, perché la vita, le situazioni e gli attimi di esistenza spesso portano a scelte talvolta imprevedibili.

Ma la nostra occupazione, a dire il vero, ci consente di pagare le spese, ci mantiene (si fa per dire), ci dà un motivo per alzarci: ecco, alla fine ruota spesso tutto attorno a un bisogno di avere una meta, per non sentirsi persi. Il tanto vituperato lavoro diviene così volano di elevazione olistico-spirituale, autostrada verso l’affermazione, ultima e imperdibile chance.

Troppo vuote le giornate senza una “fatica”, senza far andare le mani, senza portare a casa la famigerata pagnotta: occorre riempirle col sudore della fronte, i calli sui polpastrelli, le schiene ricurve e gli occhi consumati sullo schermo.

Ma siamo davvero il nostro lavoro? Ci rispecchia? Nella grandissima parte dei casi, no. Quante utopie si celano dietro una mamma che svuota cestini della spazzatura, quante speranze dietro un ragazzo chiuso in fabbrica senza vedere mai la luce del sole, quanti sogni animano i part time serali di chi lavora mentre gli altri mangiano.

Non siamo quello che facciamo, ma quello che facciamo ci serve per arrivare a quello che vogliamo essere: solo confrontandoci con ciò che non ci rispecchia possiamo capire cosa, realmente, ci rende felici e realizzati. Nella privazione si scopre dunque la pienezza, nella mancanza la presenza: la fiammella va aumentata, prima o poi divamperà e, solo allora, saremo lo specchio delle nostre attività quotidiane, delle nostre scelte, delle nostre ore passate a lavorare.

Dunque, occorre lottare ogni minuto per tracciare un senso, un segno, un segmento: allitterazione doverosa, perdonatemi, come doveroso, in chiusura di questa mia breve riflessione, è riportare le parole di un gigante come Victor Hugo, con le quali vi do appuntamento alla prossima. 

“Non vi è nulla come i sogni per creare il futuro. Utopia oggi, carne ed ossa domani.”

Una risposta a “LAVORO: FATICA O PIACERE?”

  1. Purtroppo ormai siamo visti solo come carne da macello: siamo bestie da traino che vanno eliminate non appena smettono di essere all’apice della propria efficienza.

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