Autore: Stefano Luigi Cantoni
Recentemente ho terminato la lettura di un libro di Alessandro Baricco che mi ha lasciato più di una riflessione degna di approfondimento, partendo da un tema parecchio vasto e altrettanto attuale che tocca ognuno di noi: la rabbia.
Il romanzo in questione si intitola, per l’appunto, “Castelli di rabbia” e uscì nel 1991, raccogliendo attenzioni e curiosità sia da parte dei critici che dei lettori soprattutto per la potenza espressiva, vitale e fisica che traspare dalle pagine dello scrittore piemontese.
Baricco attorno al tema della rabbia, dell’insoddisfazione e del fallimento progetta e realizza un reticolo impeccabile di storie (“tessere”, come ama lui stesso definirle) all’interno delle quali lo spazio d’azione è in costante tensione tra luoghi tangibili e luoghi della mente.
Non voglio soffermarmi troppo sulle linee che, fondendosi in un accorto e sapiente intreccio, compongono la narrazione del romanzo in questione: ciò che interessa chi scrive, oggi, è riflettere su come Baricco, anche attraverso altri suoi lavori più celebri, riesca a mettere nero su bianco la capacità di “lasciar andare.”
In una sua recente intervista il fondatore della Scuola Holden ha infatti dichiarato (stanco e stremato dalla battaglia con la malattia) che, in fondo, tra tutte le cose che un essere umano possa apprendere nel corso della vita, una delle più preziose è la forza di mettersi alle spalle tutto.
Non parliamo di bieco egoismo e neppure di mero e puerile menefreghismo, bensì di una consapevolezza d’animo tanto piena e cosciente da renderci capaci di vedere ogni istante come quello che è: un istante e basta (impresa ardua, ve lo assicuro!)
Baricco, nella sopracitata intervista, ha portato in favore della sua tesi un esempio che mi ha parecchio colpito, soprattutto perché tocca uno dei rapporti umani più belli e al contempo delicati l’amicizia.
Seguendo l’intellettuale piemontese, dobbiamo imparare (con gli anni, non è un guadagno immediato!) a lasciar andare anche una bella chiacchierata, una bella cena, una bella serata: non tornerà mai identica a quella che si è vissuta e, pertanto, inutile affannarsi nel tenercela stretta troppo.
Ovviamente lo stesso metodo è applicabile anche alle situazioni poco piacevoli, frustranti e deprimenti che il viaggio chiamato vita ci pone inevitabilmente davanti. Lasciare andare tutto, tutti e persino quella parte di noi che pretende di controllare, rimuginare e riscrivere storie ormai passate, sbiadite e distorte dallo scorrere delle lancette (tradotto: fuori dall’umano volere.)
Cinismo? No, ma elevazione al grado massimo del valore del presente (hic et nunc, qui e ora, direbbero i latini) e dei ricordi: essi (in latino ricordare è riportare al cuore) sono l’antro dove riparare il nostro vissuto dalla minaccia di una realtà deformata.
Queste entità astratte sono capaci di conservare la sola essenza (l’unica che conti davvero) di quell’attimo vissuto, non la patina sbiadita che lo ricopre: quella va lasciata andare, libera di disperdersi nuovamente nel mondo, portandosi dietro delusioni, dolori e paure e, al contempo, illusorie e fuorvianti speranze.