Autore: Stefano Luigi Cantoni
Mi ha colpito molto, di recente, una frase del grande Dino Buzzati tratta da Il deserto dei Tartari: “Forse è tutto così, crediamo che attorno ci siano creature simili a noi e invece non c’è che gelo, pietre che parlano una lingua straniera.”
Al di là della dirompente potenza linguistica propria del giornalista-scrittore, ciò che mi lascia attonito (in ambo i sensi, a dire il vero) è la profondità del messaggio. Una sorta di urlo, una drammatica e non troppo celata richiesta d’aiuto dinanzi a una situazione di estraneità nei confronti della vita.
Questo tema, al di là della citazione che ho voluto riportare, è uno dei canovacci più frequenti e profondi dell’intera cifra umana e narrativa di Buzzati, ma non solo sua. Dino ci dà qui l’occasione per allargare la riflessione di queste poche righe a un malessere ben più ampio, sordo e al contempo tanto palese da lasciare senza fiato: l’alienazione moderna verso un quotidiano in cui non ci si riconosce.
L’illusione di avere a che fare con esseri simili a noi è antica quanto l’uomo ma, ben presto, è divenuta triste disillusione: attorno non v’è che gelo, pietre (mancanza di comunicazione e comunicabilità) che parlano addirittura lingue straniere.
Il non decifrare i segni che la vita ci pone dinanzi non è un concetto troppo astratto, come parrebbe ai più: al contrario, non c’è nulla di più drammaticamente concreto. Il ragazzino escluso dal gruppo (vi prego, non obbligatemi a usare branco) altro non prova se non straniamento, freddo comunicativo e affettivo (il “gelo buttatine”) e la sua incomunicabilità si traduce in suoni e parole addirittura diversi dai fonemi dei suoi compari.
Per non parlare dei migranti, dei coraggiosi uomini che cercano di reinventarsi una vita e trovano muri e dogane, dei disperati e oltremodo dignitosissimi padri di famiglia che, per un pezzo di pane da dare a casa, emigrano per imparare usanze, lingue e costumi non propri.
Non sono favole, è la realtà: fuori dagli attici tiepidi accessoriati di ogni comodità ci sono persone non così diverse da noi che per una parola, un saluto, un sorriso darebbero tutto. Non serve molto, basta porsi sulla stessa lunghezza d’onda, come suggerisce tra le righe Buzzati.
La pietra, in fondo, può trasformarsi in sabbia, sciogliersi in una melodia e in un lessico comune e inclusivo, fatto di scambio e crescita. Il gelo via via si farà allora meno intransigente, lasciando spazi di tepore inaspettato e per questo ancor più prezioso.
Il tempo presente è, mai come prima, l’occasione unica per poter dunque fare un passo indietro, deciso e consapevole, senza perdere di vista l’altro, chi ci sta attorno e cerca di parlarci (o noi che proviamo a farlo…). Perché, come diceva un collega e amico di Buzzati, che di nome faceva Italo Calvino, la forma delle cose (che contano, aggiungerei) si distingue meglio da lontano…