Autore: Stefano Luigi Cantoni
Imbattendomi in una massima tratta dall’Immoralista di André Gide, romanzo rivoluzionario e coraggioso datato 1902, non ho potuto far altro che dar sfogo a un sorriso amaro circa il vuoto che spesso serpeggia nei rapporti umani, specie in tempi come questi.
Le parole dello scrittore parigino, a cui fu conferito il Nobel per la letteratura nel 1947, sono di quelle che lasciano il segno: “bisogna lasciare che gli altri abbiano ragione, che almeno questo li consoli per non avere altro a cui pensare.”
Tema delicato e attualissimo quello di dare ragione a qualcuno, soprattutto in un’epoca storica nella quale tutti, o perlomeno molti, la sopracitata ragione tendono a prendersela anche quando non gli spetta affatto.
Gide ci vide lungo, affetto da un disagio interiore a tratti insopportabile, vuoi per i suoi gusti non allineati al comune sentire del primo Novecento, vuoi per un’indole inquieta ben differente rispetto alla morale che permeava la classe borghese e intellettuale di allora.
Con lui, dunque, non nascondo di trovarmi parecchio allineato: le sue parole sono intrise di dirompente necessità, soprattutto se lette alla luce della pochezza di contenuti che caratterizza i dialoghi (o, meglio, le vane urla) a cui siamo tristemente abituati.
Un’eterna gara con il prossimo pare essere la vera ragion di vita di molti di noi, disposti addirittura a rinunciare al bene più prezioso (il pensiero) per aver ragione del proprio interlocutore di turno, nemmeno ci trovassimo nel pieno della più intensa delle arringhe giudiziarie proprie dell’antica Roma.
La ragione si da agli stolti, dicono i saggi: Gide cavalca l’onda e rincara senza remore, puntando il dito contro il vuoto che alberga nella mente (e nelle giornate) dei più. Una mancanza che, per stessa natura umana, va riempita: ed ecco spuntare cicalecci e litigi, provocazioni e dispute, confronti sterili e rivedibili espressioni verbali.
Il “non aver altro a cui pensare” cui fa riferimento il letterato d’Oltralpe non solo profuma di ironico distacco da un mondo nel quale l’autore non si riconosce ma, drammaticamente, abbraccia intere generazioni di individui che, di fronte allo specchio della noia e della ciclica ripetitività dell’esistenza, scelgono di essere coraggiosi.
Il coraggio sta nel pensare, nel riempire quel vuoto (che, come diceva Democrito, è fisico e composto di atomi) con azioni e ragionamenti in grado di costruire: un essere umano che pretende ragione senza offrire confronto è destinato a una polverosa (e vuota) corsa verso il nulla.
“Diversitas opinionum est causa litis”, diceva Averroè: la diversità delle opinioni ha sempre provocato, e continuerà a provocare, dispute e litigi. La svolta, forse, sta nel fissarsi sul valore in sé del dialogo e non su chi ne debba uscire vincitore a tutti i costi, a patto che si pensi meno a sé stessi e di più al momento (unico e irripetibile) che stiamo avendo la fortuna di vivere, anche se ciò richiede quell’amor proprio che, tra like e followers, abbiamo tristemente messo da parte.