LA LUNGA STRADA DESERTA

LA LUNGA STRADA DESERTA

Autore: Heiko H. Caimi

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LINE-UP:

MARCO DALL’ORO – LEAD VOCALS, RHYTHM GUITAR

STEVE BUTLER – LEAD GUITAR, BACKING VOCALS

DAVIDE ORIZIO – KEYBOARDS

ALEX ZANI – BASS, BACKING VOCALS

EDOARDO FOGLIAZZI – DRUMS, PERCUSSION

Non era un giorno qualsiasi. Era il giorno del debutto dei 21st Vision. Il palco dell’Omicron li attendeva. A braccia aperte, secondo Marco. A sipario chiuso, diceva Steve. 

“La musica è come una storia d’amore”, aveva scritto Marco, il cantante e chitarrista ritmico. “Se non ci credi fino in fondo sarà solo dolore”. Una rima non molto originale, amore-dolore, ma agli altri era piaciuto il senso del testo. Adattando un famoso proverbio inglese, invece, Steve aveva decretato: «Music is a bitch and then you die», la musica è una puttana e poi muori. Quando usciva con quelle sparate lo si poteva guardar male, al massimo, ma non gli si poteva dire niente: era lui l’anima nera della band, il profeta delirante delle sei corde, il salmodiatore psichedelico che aveva dato carattere alla musica del gruppo. E che li aveva portati da un banale repertorio di rock leggero, una vita e un nome prima, , alle febbrili atmosfere cupe e progressive del nuovo corso, a cavallo tra King Crimson e Bauhaus, tra Siouxsie and the Banshees e Soft Machine. Li aveva anche convinti a passare dai testi in italiano a quelli in inglese. «In Italia quasi nessuno conosce l’inglese», aveva detto. «Se canti in italiano, tutti ti capiscono e magari ti trovano banale. Ma se lo fai in inglese, seguono solo la melodia. E poi è una lingua più adatta al rock. Le parole italiane finiscono quasi tutte per vocale, e questo è molto poco rock».

Si erano allenati suonando pezzi come “21st century Schizoid Man” o “Karl Evil 9”, e la lunghissima cover di “Set the Controls for the Heart of the Sun” era diventato uno dei loro cavalli di battaglia, insieme a una versione tiratissima di “White Rabbit”; e ai numerosi brani inediti, naturalmente.

Quella sera, però, non si sarebbero esibiti su un qualsiasi palco di provincia. Quella sera, all’Omicron, era in gioco il loro destino immediato: vincere la selezione o ripiombare nell’anonimato. Erano apprezzati nel giro dei locali, ma non erano mai riusciti a sfondare in un circuito più vasto. E, quando la Polygram aveva sottoposto loro un contratto nel quale si prevedeva un riarrangiamento in chiave più commerciale dei loro brani, per incontrare i sedicenti gusti del pubblico, Steve si era opposto drasticamente: «Fate pure, ma senza di me. E senza le canzoni scritte insieme a me». «Ma… è un contratto», aveva ribattuto Alessandro detto Alex, il bassista, «potremo fare i puri in seguito». «I don’t care», non me ne importa, aveva replicato Steve, «una volta che hai venduto l’anima non puoi tornare puro». «Una volta che ti sei sputtanato sei un paraculo a vita», aveva rincarato Edoardo, il batterista.

Davide, il tastierista, non si era pronunciato. A lui importava solo suonare. Di famiglia benestante, non gli importava farlo per soldi: gli bastava farlo. Era tutta la sua vita. Più delle ragazze. «La musica è per sempre», era solito dire. «Quando sei un giorno qui e un giorno là, le ragazze girano. E, se restano, prima o poi ti impongono una scelta: o loro o la musica. E tu non puoi scegliere tra una e l’altra: finiresti comunque per tradirne una». Non aveva mai superato l’abbandono del gruppo da parte del precedente chitarrista solista, Luigi, che aveva preferito la famiglia alla chitarra. Anzi, nutriva un profondo rancore per quella separazione. E per una sciacquetta come quella Nadia, poi! No, proprio non lo capiva.

Marco sarebbe stato favorevole a firmare quel contratto: era lui che aveva imposto alla band quel rock leggero che, secondo lui, li avrebbe fatti sfondare. Ma l’unica cosa che avevano sfondato erano le tasche, e una band con le pezze al culo non può sopravvivere a lungo, soprattutto in periodo di crisi, quando in certi locali sono convinti che ti accontenterai di cinquanta euro pur di poterti esibire. E poi la sua voce era molto più adatta alle canzoni del nuovo corso, con quelle sfumature alla Robert Plant che sembravano fatte apposta per creare un sodalizio irresolubile con la chitarra e le composizioni di Steve. Nonostante eseguissero un genere tutt’altro che popolare, da quando si erano dati al progressivesuonavano quasi tutte le sere. Incredibile a dirsi, l’insolito connubio di generi che presentavano al pubblico aveva fatto breccia. Era durante una di quelle serate che il discografico della Polygram li aveva notati, ed era grazie a lui che si erano sentiti abbastanza in gamba da partecipare a un concorso nazionale. Avevano già inciso alcuni demo, ma se avessero vinto il primo premio all’Omicron avrebbero potuto pubblicare un cd distribuito in tutta Italia, e suonare dal vivo tre canzoni su MTV. Poteva essere il loro trampolino di lancio, quello che li avrebbe trasformati in una stella nascente del rock. In un panorama come quello italiano, sarebbe stato praticamente un miracolo.

Tutti insieme sul furgone di Edoardo, comperato di seconda mano da una federazione sportiva. Dietro le due file di sedili c’era tutta la loro strumentazione.

Era un’estate calda, e la strada che dal loro paese, in provincia, li avrebbe portati in città era insolitamente deserta.  L’erba rinsecchita a lato delle corsie  rendeva  ancora più desolato il paesaggio, costellato di campi di mais e di riso e di qualche rachitico albero sparso. Miraggi increspati si muovevano, sfocati, poco più avanti di loro, sempre alla stessa distanza.

«Il rock è una lunga strada deserta», disse Edoardo osservando quella desolazione.

«Cosa vuoi dire?» gli domandò Davide.

«Tutto è già stato detto, tutto è già stato suonato», gli rispose l’amico. «Tutto è già stato mischiato».

«Minchiate», osservò Alex.

Marco fissava come ipnotizzato le strisce bianche che si susseguivano senza soluzione di continuità. Lungo la strada sembrava davvero non esserci nessuno. Come succedeva ad ogni agosto inoltrato. Tutto era sgombro, tutto sembrava abbandonato. Come se su quella strada ci fossero soltanto loro e il filo della statale che sembrava perdersi nel miraggio d’acqua là in fondo, impossibile da mettere a fuoco. L’acqua è vita, ma sotto il sole martellante della canicola evocava soltanto una grande sete. 

Marco si sentiva la bocca secca. Bevve un sorso da una delle bottiglie nel thermos ed emise un sospiro di soddisfazione.

«Sete?», gli domandò Edoardo.

«Sì, sete. Questo sole sfonda la gola».

«Già», assentì Steve. «Sete. Sai di che cosa ho sete, io?».

Marco non gli rispose: rimase in attesa che si spiegasse.

«Ho sete di inventare sempre qualcosa di nuovo», proseguì il chitarrista. «Edoardo può dire quello che vuole, ma il rock è una strada che non finisce mai».

«Sembra non dover finire mai», obiettò Edoardo, «ma oggi come oggi è già finita prima di partire».

«Veramente, se sei qui con noi, è perché anche tu speri di vincere il concorso», osservò Alex.

«Sì, mi piacerebbe vincere. Mi piacerebbe che la nostra abilità venisse riconosciuta», ammise il batterista. «Ma quello che facciamo è solo un modo di replicare il rock, un cercare di rendere originale qualcosa che non lo è più da molto tempo. Dal punto di vista della musica, le partenze sono finite. Il grande albergo dei santi del rock, quelli che l’hanno fatto sudare, che l’hanno fatto crescere e diventare adulto è già tutto occupato. Non c’è più posto per noi, né nell’imbalsamato regno degli dei, né nell’eroico cimitero degli apripista. C’è solo questa lunga strada deserta, davanti a noi. Da percorrere e ripercorrere senza poter visitare alcun luogo che non sia già conosciuto, che non sia già stato suonato da altri».

«Ma che cosa ti sei fumato?», gli fece Davide.

«Davvero pensi che nella musica non c’è più niente da dire?» gli domandò Steve.

«Sì, ma questo non significa che non mi piaccia suonare», chiarì Edoardo. «La batteria è tutta la mia vita. Il resto è solo un lavoro».

«Se pensi che il rock è morto, allora ascoltati questo», disse Steve imbracciando la chitarra. «Si chiama “Crash”. È l’ultimo pezzo che ho composto. Una volta che lo canterà Marco, sarà perfetto». Inserì un cd nel lettore dell’auto. «Accendi, Edo, per favore. Ho già preparato una base per farvelo sentire».

Edo eseguì. Il tappeto introduttivo di tastiere venne presto sopraffatto da un ritmo martellante eseguito da una drum-machine. Poi intervenne la chitarra solista, più psichedelica che mai. Steve sogghignò scrutando i compagni di viaggio, quindi, accompagnandosi con la chitarra acustica, incominciò a cantare:

Yellow lights
Into the Night
pulses of light
inside my mind
pulsing brain
pounding rhythm
colored halos
metallic arrows
ring-a-ring-a-roses
through an opaque veil
looking for hot lights
slipping into the night
engines, piercing screams
under the spine
brakings
long, plaintive cries
moving in a vacuum
throughout a thousand deafening growls
fragments of bloody turbines
inside my head
in the dimension
of noise
cold razors in the absence
flying in the night
without the burden of silence
floating
between heartless sounds.

Gallery
sliding over the dark
pale yellow flames
vanishing in the night
the soft breath of air
the arabesques of blood
on the road
accelerate
the inanimate appendix
steering
under a new sight
beyond the tunnel
and beyond the light
skinning the black air
with light’s daggers
flashing
between the upside down cars
and the broken plates
between the bent wheels
slipping
on the bleeding oil
mysterious diagrams
of death
strange metal conjunctures
between burned faces
and crumpled bodies
sculptures of iron and meat
charred
in the extreme geometry
of muscles and steel.

Wounded blood
crawling
in the unmoving
in fear
in the red fresco
imprisoned by darkness. (*1)

Gli altri quattro lo avevano ascoltato fino alla fine,.

Edoardo ebbe l’impressione che, attraverso quelle note imperfette, il rock fosse stato abusato, trasfigurato.
Ecco, sì, trasfigurato, pensò. L’unico futuro possibile per il rock: trasfigurarsi lungo il delirante declivio psichedelico di dissonanze mai osate. Forse era quella l’ultima strada: l’ermetismo assoluto, laddove la musica non raggiunge l’orecchio del pubblico ma basta a se stessa, solipsista, solitaria, all’infinito come una scheggia o rallentando lungo quell’interminabile strada. Altrettanto deserta perché non ancora esplorata.

Ma la strada su cui stavano viaggiando non era più deserta. Un tir, proveniente dalla direzione opposta, procedeva sbandando. Che l’autista fosse ubriaco? Edoardo rallentò, ma quello aveva perso il controllo. Provò ad accelerare per evitarlo con uno scatto, ma era troppo tardi: il tir caracollò su di loro. In un attimo l’unica realtà fu lo schianto.

*     *     *

All’Omicron li aspettarono inutilmente. Poi li sostituirono con un altro gruppo. Per gli organizzatori non faceva differenza, anzi: un gruppo di strimpellatori in meno dai quali farsi fracassare le orecchie. Poi, quando ebbero la notizia di quello che era accaduto, dedicarono ai 21st Vision la serata.

I loro demo tape vennero raccolti e ne venne pubblicato un disco. Entrarono difilato nell’empireo del rock. Divennero un mito grazie alla loro morte, come altri prima di loro. Solo grazie al trapasso la loro musica aveva raggiunto le orecchie del grande pubblico. Solo con la morte fu loro riconosciuta una dignità.

Il disco rimase in classifica per diciassette settimane. Poi tornò all’anonimato dal quale era stato strappato. Non ci sarebbe stato un seguito.

L’anno dopo, al concorso dell’Omicron, la serata fu dedicata a Kurt Cobain.

(*1)

CRASH (Il tunnel)

Gialli fanali
verso la notte
battiti di luce
dentro la mente
cervello pulsante
ritmo martellante
aureole colorate
saette metallizzate
girotondo
attraverso un velo opaco
fari cerchi roventi
che scivolano nella notte
motori urla penetranti
lungo la spina dorsale
frenate
lunghe grida lamentose
muoversi nel vuoto
tra mille ringhi assordanti
frammenti di turbine insanguinate
dentro la testa
nella dimensione
del rumore
freddi rasoi dentro l’assenza
volando nella notte
senza il peso del silenzio
galleggiando
tra suoni senza cuore.

Galleria
scivolare oltre il buio
pallide gialle fiamme
evanescenti nella notte
il soffio leggero dell’aria
gli arabeschi di sangue
sulla strada
accelerare
l’appendice inanimata
sterzare
su una nuova vista
al di là del tunnel
oltre la luce
scuoiando l’aria nera
con fanali pugnali
lampeggiando
tra le auto capovolte
e le lamiere spezzate
tra le ruote piegate
scivolando
sull’olio insanguinato
misteriosi diagrammi
di morte
strane congiunture metalliche
tra volti bruciati
e corpi accartocciati
sculture di ferro e carne
carbonizzate
nell’estrema geometria
di muscoli e lamiera.

Sangue ferito
che striscia
nel tutto immobile
nella paura
nell’affresco rosso
imprigionato dal buio.