Autore: Stefano Luigi Cantoni
“«E la libertà?» «La libertà sta qui» disse l’uomo puntandosi un dito al centro della fronte.”
Imbattendomi in questa frase di Leonardo Sciascia, tratta da “Il contesto”, mi sono necessariamente dovuto soffermare su cosa, per noi, rappresenti oggi la libertà. Una parola così leggiadra, piacevole da pronunciare, rassicurante (quantomeno a parole.) La libertà finisce dove inizia quella degli altri, dicevano. Verissimo, se non fosse che oggi il concetto di “altri” è vago e di difficile lettura.
Gli altri spesso sono i primi (o gli ultimi, a seconda di come si voglia leggere il cerchio del tempo e degli eventi) a richiedere e necessitare “libertà”, autonomia, respiro e asilo: lo stesso accade a noi, ma lo spazio risulta limitato, i corpi finiscono per sfiorarsi, il rischio di fare a gomitate per una fetta di angolo “libero” è davvero alto.
E allora ecco che, per l’ennesima volta, ci vengono in aiuto i classici, i “padri”, i saggi, di cui Sciascia è stato uno dei più fulgidi e ammirevoli esponenti. Pochi come lui hanno vissuto e respirato un territorio tanto avido di libertà come il Sud Italia, stretto tra connivenze e silenzi di facciata, tra granite sorseggiate in piazze torride al sole d’agosto e brezze uniche sul finir del giorno.
La libertà a volte sta anche negli sguardi, nelle parole non dette, nelle mere intenzioni: spesso parlare rovina tutto, agire deteriora gli aneliti, scegliere può compromettere intere esistenze. La fronte di Sciascia è il centro nevralgico della coscienza, è il nervo principale dal quale passano le sinapsi del respiro consapevole, del diaframma rilassato, dell’abbraccio inaspettato, della (sospirata) inclusione olistica verso ciò che è altro.
Datemi pure dell’illuso, ma la libertà parte solo dall’uomo: un bene prezioso che da secoli ci è stato concesso e che, purtroppo, spesso abbiamo male utilizzato, se non proprio sciaguratamente buttato via. Eppure, c’è ancora speranza, eccome, soprattutto se ricominceremo a partire dalle cose più semplici e autentiche.
La libertà rampante del barone di Calvino, abbarbicato in cima a un albero, o quella cantata (e “partecipata”) dall’immenso Giorgio Gaber sono solo due delle possibili e variegate reazioni a uno straniamento profondo che, sin dagli albori della civiltà umana, attanaglia ogni coscienza: la solitudine.
Ma questa solitudine, per incanto, si spezza o, meglio, si mitiga in uno sguardo, una parola o un gesto capaci di infrangere la cortina della stupidità che, spesso, fa rima con distacco e freddezza: in fondo, il sentire comune, la condivisione di un disagio esistenziale e un non sentirsi al proprio posto passano innanzitutto dalla nostra mente.
La libertà non si sceglie, si può solo viverla e ricercarla spasmodicamente, e quindi difenderla, a partire dai piccoli gesti: leggere in mezzo a una metro zeppa di automi con la faccia sul cellulare, sorridere a uno sconosciuto, investire tempo nel dialogo e nel confronto, nell’arte, in tutto ciò che esuli dalla plastica colorata degli schermi al plasma zeppi di mediocri illusioni.
Sono scelte spesso difficili, come quella (dai più snobbata, e si vede…) di ragionare e pensare: la libertà parte dalla testa, unica custode di una consapevolezza che, nonostante il freddo silenzio che assorda le nostre distratte giornate, può ancora fare la differenza tra vivere ed esistere.