Autore: Stefano Luigi Cantoni
Nel vasto e controverso mondo della scrittura, soprattutto quella così detta “emergente”, un tema mi ha sempre punzecchiato il fianco come una spina, risultando oggi come mai meritevole di qualche riga di riflessione: chi scrive, legge?
Sembra una provocazione ma vi confesso che non lo è, o perlomeno non è questo l’intento, anzi. La molla che mi spinge ad affrontare un argomento tanto “turbolento”, se così possiamo definirlo, è quasi del tutto figlia della curiosità (e di una massima di un grande scrittore che, per ora, non vi svelo.)
Scrivere e leggere terminano con lo stesso suono ma, nella testa di ognuno di noi, rimbombano con note differenti, per non dire dissonanti: se scrivere è spesso motivo di vanto e orgoglio, leggere lo è meno. Scrivere, del resto, rappresenta un prolungamento fisico, tangibile e innegabile del nostro Super-io, della nostra coscienza e delle nostre stesse paure, frustrazioni e, ogni tanto, qualità.
Ma la lettura, povera, incarna ciò che più richiede fatica: apertura, silenzio, studio. Sì, perché leggere oltre che piacere è anche dedizione, apprendimento e confronto con mondi (e persone) diverse da noi. Ciò, però, richiede sforzo e altruismo: far entrare “altri” nel nostro intimo non è operazione facile come sputare in faccia righe di sfogo, pianto, riso e desiderio.
Il nervo scoperto si rivela più vulnerabile che mai e qui sta la provocazione di questa mia, se pur breve, riflessione: per essere scrittori (o affermare di esserlo) occorre innanzitutto essere lettori. Non solamente per consegnare a chi ci leggerà un testo corretto (verbi, concordanze, punteggiatura, senso logico, sintassi) ma anche e soprattutto per imparare a vivere come uno scrittore.
Leggere non solo ci immerge in molteplici vite capaci di farci vivere centinaia di anni, come diceva Umberto Eco, ma ci consegna il privilegio di leggere il mondo con gli occhi di chi una storia (la propria) la sa raccontare, rendendola credibile e “vera” anche se è frutto di pura fantasia.
L’arroganza di sfoggiare ciò che scriviamo è comprensibile nello scrittore di poca qualità, che privo di confronto e metro di giudizio si vede come nuovo fenomeno editoriale a ogni riga che rilegge nel buio ovattato della sua stanza, sognando vendite, flash e applausi scroscianti.
Leggere ci dona umiltà, senso critico e visione d’insieme, capaci (se vissute con sapienza e arte) di dare slancio alle nostre pagine scritte. Ma badate bene, non si diviene lettori perché si scrive, ma il contrario: se non si legge, non si può essere scrittori.
Lo scrittore degno di tale nome è innanzitutto un grandissimo lettore, perché solo così la curiosità viene veicolata verso qualcosa di arricchente e costruttivo e la fame di gloria viene placata da gesta memorabili, commoventi avventure e inenarrabili stralci di vissuto.
Tornando alla molla che mi ha spinto a queste brevi riflessioni, oltre all’amore smodato per la lettura (non dei miei scritti, ma di quelli degli altri!), è la riflessione dell’immenso Jorge Luis Borges con la quale non posso che trovarmi d’accordo e che, se posso permettermi, andrebbe stampata e appesa in ogni scuola di scrittura:
“Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto. Io sono orgoglioso di quelle che ho letto.”