Autore: Lorenzo Grazzi
Siamo una specie frivola, lo dimostra il nostro percorso storico e, ancora di più la nostra quotidianità. Abbiamo una velocità di indignazione pari a quella di un SUV, da 0 a 100 in cinque secondi.
Ma che te ne fai di andare tanto veloce con una macchina su delle strade che sono tutte buche, ingorghi, semafori, rotatorie e strisce pedonali?
Ecco, che ce ne facciamo noi di tutta questa indignazione che ci attanaglia il cuore? Proprio niente, in effetti.
Nel 2001 due aerei dirottati dai terroristi venivano fatti schiantare sul World Trade Center causando oltre 3.000 morti e scombinando per sempre gli equilibri del mondo.
Ne rimanemmo tutti sconvolti e consapevoli che la nostra vita, anche se in modo impercettibile, sarebbe cambiata per sempre. Ne fummo indignati.
Poi gli USA, forti di quella ferita, lanciarono missioni militari che ci indignarono ancora di più e i balconi di tutto il mondo si riempirono di bandiere arcobaleno perché sentivamo il pericolo nell’aria e volevamo gridare a tutti che eravamo per la pace, per una risoluzione pacifica.
Che naturalmente non ci fu.
Ma non era finita, stava per arrivare il tempo degli attentati in Europa: Madrid (2004, 192 morti), Londra (2005, 52 morti), Tolosa e Montauban (2012, 7 morti), Londra (2013, un morto a colpi di machete), Bruxelles (2014, 4 morti), Parigi (2015, 14 morti), Copenhagen (2015, 2 morti), Parigi (2015, 130 morti), Bruxelles (2016, 32 morti), Nizza (2016, 86 morti), Rouen (2016, 1 morto), Berlino (2016, 12 morti), Londra (2017, 2 morti), Stoccolma (2017, 5 morti), Parigi (2017, 1 morto), Manchester (2017, 22 morti), Londra (2017, 3 morti), Barcellona (2017, 15 morti), Turku (2017, 2 morti), Trebés (2018, 3 morti), Parigi (2018, 1 morto), Liegi (2018, 3 morti), Strasburgo (2018, 3 morti), Londra (2019, 3 morti)… e poi ci sono le centinaia di feriti e le migliaia di persone che non sono mai più state le stesse.
E il mondo si è sollevato? No, certo. Si è ritenuto sufficiente riempire le pagine social di Je suis Charlie, e compagnia cantante, qualche foto profilo con le bandiere dei Paesi colpiti per esprimere solidarietà e poi via, si torna alla vita di tutti i giorni.
E poi c’è la pandemia e dai balconi gridiamo il nostro bisogno di essere uniti, di farci forza e andare avanti tutti insieme, ma quando ci consentono di tornare in strada aggrediamo i medici (e qui, nemmeno una bandierina virtuale perché, alla fine, dei medici non è che ci fidiamo più di tanto).
E poi la Russia invade l’Ucraina e allora ecco che bandiere gialle e azzurre compaiono in massa sui balconi, che tutti si indignano. Ma poi ci chiedono dei sacrifici, di aumentare il prezzo del gas e l’indignazione scema veloce.
E poi Hamas compie un attentato a Israele e il mondo va in frantumi davanti a tanto orrore.
E poi Israele passa al contrattacco nella maniera più spietata possibile e allora riempiamo le storie dei social con All eyes on Rafah, le storie, eh, quelle che scompaiono dopo 24 ore perché la nostra indignazione non può durare troppo a lungo.
E poi arriverà altro, perché le cose non risolte tendono a riproporsi come il peperone.
Tutta questa corsa nell’orrore per rimettere a fuoco un punto importante, secondo il sottoscritto, della nostra società e della nostra epoca: se non troviamo il tempo per fermarci DAVVERO per cose come queste, nessuno troverà il tempo quando accadrà a noi. Siamo davvero diventati così cinici? Siamo davvero disposti a vivere come virus, riproducendoci e morendo a un ritmo frenetico per cercare di rubare più tempo possibile raggranellando istanti di vita tra un senso morale collettivo che ci impone delle reazioni indignate e un aperitivo con il quale dimenticarci tutto?
Cos’è nato da quella indignazione dell’11 settembre 2001 oggi che l’America si prepara a eleggere un presidente che della guerra ha fatto un moto di orgoglio? Che l’Europa sta andando verso una deriva dalla quale sarà difficile tornare indietro? Cos’abbiamo fatto, oltre a degli stati sui social, per non ritrovarci più ad essere tutti dei Charlie?
Colpa della politica? Forse, in parte, ma la politica la facciamo noi. Io sono perfettamente e squisitamente responsabile di tenere i toni pacati anche nelle discussioni, io sono perfettamente in grado di leggere le etichette dei prodotti se intendo boicottare un’azienda o un Paese che ha una condotta con la quale non sono d’accordo. Per quanto tutti si affannino per farcelo dimenticare, ognuno di noi può cambiare canale, spegnere i social, leggere un libro e portare nel mondo quella parte di felicità che tutti cerchiamo.
Se non siamo noi a fare delle scelte, la politica e l’economia le faranno per noi. E nessuna delle due è al servizio dell’umanità.
Un articolo sincero e puntuale che condivido parola per parola.