ITALO CALVINO: 100 ANNI TRA LIBERTA’ E CORAGGIO

ITALO CALVINO: 100 ANNI TRA LIBERTA’ E CORAGGIO

Autore: Stefano Luigi Cantoni

Nel centenario della nascita di Italo Calvino in molti stanno giustamente rendendo omaggio a uno dei più grandi narratori ed intellettuali del nostro Novecento e, a parer mio (ma credo di essere in buona compagnia), dell’intera letteratura moderna europea.

Troppe le sue opere, e soprattutto troppo profonde e vaste, per essere analizzate e sviscerate in questa sede: mi limiterò a un omaggio nei confronti di un uomo che, oltre che come scrittore, mi ha formato e toccato nel profondo innanzitutto come individuo.

In tanti, dagli studiosi ai critici passando per letterati e scrittori, ritengono Calvino l’equivalente in letteratura del concetto stesso di libertà. Vera e sacrosanta interpretazione, non v’è dubbio, soprattutto anche alla luce di plurime (e approfondite) letture e riletture dei suoi scritti, specie con occhi moderni.

Che si tratti del “famoso” barone arrampicato sull’albero in un disperato (e drammaticamente goffo) grido di insofferenza o della libertà che Marco Polo rivela essere possibile dinanzi a uno stupefatto Kublai Kahn poco importa: per Calvino ogni sentimento, anche la libertà, ha un fondamento razionale, potremmo dire quasi geometrico.

Impossibile, per lui che fu figlio di un papà agronomo e di una mamma botanica, non subire le molteplici (e benevole) influenze delle leggi matematiche che regolamentano la natura e l’universo. Nelle sue opere, dai romanzi ai racconti passando per i saggi e le stesse critiche letterarie, non mancano mai riferimenti più o meno calcati a un ordine prestabilito, a una norma comune e a un evolversi del cosmo secondo precise dinamiche, tanto spaziali quanto temporali.

Ma ciò che ha reso Calvino uno dei più grandi ed istrionici narratori del nostro Novecento è la capacità di raccontare storie come se fossero tessere di un mosaico in trepidante attesa di essere composto, svelato e reso chiaro a chi avesse voluto scorgerne le sottili eppur definite linee.

Ora, in nome della mia irrinunciabile indole a non assecondare i più, ritengo che, oltre a una visione anticonformista e spiazzante della libertà, Calvino vada ricordato per un ulteriore e ben preciso valore: il coraggio.

Un coraggio innanzitutto stilistico e affabulatorio, in cui a visconti dimezzati si affiancano uomini in preda a raptus criminali, passando per individui modesti e ordinari intenti a scorgere, nel volo di uno stormo di piccioni, il senso ultimo dell’avventura che noi tutti chiamiamo vita.

Un coraggio che ha consentito alla letteratura di varcare la soglia spazio-temporale della sicurezza per entrare, con “educata decisione” (per dirla alla Calvino), nel multiforme mondo dell’incertezza, del dubbio e del confronto con altre forme e differenti esiti, incentrati sul valore della parola.

Il coraggio di Calvino è, in fondo, essersi servito di ciò che sapeva fare meglio: scrivere, ma non per prendere gloria e complimenti, quanto per una fisica necessità di raccontare innanzitutto le sue debolezze, le sue paure, le sue ansie e le sue manie. 

Attraverso le sue memorabili pagine, Italo ci ha insegnato anche ad apprezzarci per quello che siamo, senza la pretesa di capire tutto, o spiegarlo, o renderlo per forza accettabile.

La consapevolezza di essere solo dei piccoli ingranaggi nella “macchina-universo” (altro concetto caro all’autore) rende ancor più profonda e melanconica la sua visione dell’uomo, preso in una costante tensione tra pieno e vuoto, tra essere e non essere, tra fisicità e assenza, tra solitudine e compagnia, tra rumore e silenzio.

Leggere Calvino è inneggiare convinti e commossi alle debolezze, a discapito (finalmente!) delle eccellenze e delle vittorie strappa applausi. Calvino era un uomo semplice, legato alle proprie radici e fedele a un pensare raffinato e autentico, senza posa, lontano da quel mondo che ha cercato, in tutti modi, di spiegare innanzitutto a sé stesso, facendo un passo indietro, rifugiandosi nell’essenziale, nel nucleo, nel cuore di tutto.

Perché in fondo, come ci spiega lui stesso tra le pieghe di uno dei suoi più grandi capolavori, “la forma delle cose si scorge meglio da lontano…”