Autore: Heiko H. Caimi
Dicono che il primo giorno di lavoro sia un’esperienza esaltante: il giorno in cui, finalmente, metti piede nell’età adulta e, dopo un mesetto, percepisci uno stipendio tutto tuo. Questo, almeno, a sentire i miei genitori e, se tenente conto che l’augurio di papà è stato «finalmente potrai smettere di considerare questa casa un albergo», potete farvi un’idea di quanto ritenessi credibili le loro affermazioni. Se poi ripensavo alle altre mie prime volte, il panorama si faceva ancora più scoraggiante. Il mio primo giorno d’asilo ho pianto tutto il giorno perché rivolevo la mamma; il primo giorno di scuola ho pianto fino a quando la mamma non se n’è andata, piantandomi lì in balia di una maestra più crudele che severa: dopo è subentrato il terrore; il primo giorno da maggiorenne è stato un giorno come gli altri, anzi, è stato piuttosto deprimente, perché papà non ha mai smesso di parlarmi delle responsabilità che avevo conquistato, come se fosse una conquista non poter fare più niente di quello che ti piace; e il primo giorno di università ho capito che tutto quello che avevo imparato al liceo non mi sarebbe servito a niente, e che la sfida sarebbe stata ancora più dura. La mia unica prima volta davvero esaltante è stata quella del primo bacio, ma vi assicuro che entrare nel mondo del lavoro non ha niente a che vedere con emozioni a fior di labbra, e nemmeno con quelle del primo bacio alla francese. Assomiglia di più a una tortura medievale.
La giornata, infatti, è partita nel peggiore dei modi. Uno dei vantaggi dell’università è che la maggior parte delle volte puoi dormire fino a tardi. Beh, quando cominciate a lavorare, a meno che non facciate le cubiste, le bariste, le cameriere o non lavoriate in una discoteca o in un night-club, quest’aspetto così piacevole della vita siete costrette a lasciarvelo alle spalle.
Non che la prospettiva di svegliarmi alle sei mi abbia mai sorriso, ma l’idea di doverlo fare tutti i giorni mi dava un senso di esperienza mistica. E io non ho mai potuto soffrire le esperienze mistiche: non sono una materialona, ma il misticismo preferisco lasciarlo ai religiosi. Senza contare che, durante la notte, non sono riuscita a chiudere occhio, pensando a quanto questo secondo ingresso nell’età adulta mi sembrasse terrificante. Ma mi sono fatta forza e ho raggiunto con passo baldanzoso o, come diceva il Manzoni, con lieta furia l’ufficio dove avrei trascorso tre mesi di stage. Non che la possibilità di lavorare gratis per tutto quel tempo senza avere nessuna certezza che poi mi avrebbero assunto mi esaltasse, ma sapevo che, più grintosa ed entusiasta mi fossi mostrata, più avrei fatto una buona impressione.
All’ingresso nel palazzone della multinazionale in cui devo fare il mio tirocinio riesco persino a sorridere. Ma, non appena una receptionist distratta mi indica dove devo andare e varco la porta dell’azienda, la prospettiva cambia del tutto: mi trovo in un open-space immenso con divisori in plastica grigia, pareti bianche come nei manicomi, gente che urla al telefono e, soprattutto, una sfilza di miei coetanei che hanno l’aria o di non dormire da giorni o di soffrire di una grave forma di depressione. Nessuno alza la testa per vedere la nuova arrivata, e io sto già per avvicinarmi al primo cubicolo per chiedere informazioni quando vengo intercettata da una quarantenne, vestita da uomo e con l’aria della donna in carriera per la quale la carriera è ancora un sogno lontano; mi sorride con una smorfia che sembra più un rictus che un sorriso e mi accoglie festosamente dicendo: «Ah, tu devi essere quella nuova. Vieni con me».
La donna, senza dire altro, mi porta a fare un tour nel labirinto dell’open-space con passo da maratoneta, rendendomi difficile starle dietro, e, dopo essersi persa almeno un paio di volte (ne sono sicura) mi abbandona in un loculo vuoto all’interno di quella bolgia infernale. Prima che io possa chiederle che cosa devo fare, se ne va quasi di corsa, lasciandomi davanti a una scrivania a contemplare un computer con uno schermo grande e sporco così moderno che persino un rigattiere mi sputerebbe in faccia se provassi a rifilarglielo, una tastiera alla quale mancano la “z” e la “w” (che cosa accidenti scriveva chi ha lavorato prima di me, con la zeta e la vu doppia?), una cassettiera completamente vuota e un telefono fisso grigio con la numerazione a disco e con sopra la targhetta della SIP che, per chi non lo sapesse, è il modo in cui si chiamava la Telecom quarant’anni fa (lo so perché me l’ha detto la nonna). Si vede che le novelline devono familiarizzarsi con l’archeologia.
Mi guardo intorno e aspetto che qualcuno venga a spiegarmi che cosa devo fare. Dopo dieci minuti di attesa comincio a innervosirmi. Dopo venti, prendo a tamburellare con le dita sul ripiano della scrivania. Dopo mezz’ora, avrei voglia di alzarmi e gridare: «Ehi! Sono Daniela, quella nuova! Qualcuno mi vuole spiegare che cazzo devo fare?» (lo so, non si può dire cazzo su un luogo di lavoro, però cazzo, non ne potevo più!). Ma non ce n’è bisogno, perché al quarantesimo minuto vengo raggiunta da una segretaria che deve lavorare ancora qui solo grazie alle ultime riforme del sistema pensionistico, dato che dimostra almeno cinquant’anni per gamba. «Sono la signorina Bezzi», mi annuncia, «e per i prossimi giorni tu dipenderai da me». La graziosa signorina (il cui volto è così rugoso da sembrare la cartina del Rio delle Amazzoni con tutti i suoi affluenti, e che indossa un tailleur talmente inamidato da sembrare confezionato apposta per una mummia) mi deposita davanti una serie di cartellette di cartoncino beige e mi spiega: «Queste devono essere archiviate nel programma contabile entro mezzogiorno. Passo io a riprenderle». E, senza darmi ulteriori spiegazioni, scompare nel dedalo dal quale sono circondata.
Apro le cartelline e scorro le pagine e pagine di documenti contabili che dovrei inserire nel computer. Non ci capisco un’acca. Accendo anche il residuato bellico, sperando di non dover inserire troppe “z” e troppe “w”, e che la struttura del programma contabile possa suggerirmi, o almeno permettermi di intuire, che cosa dovrei fare. Per fortuna sul desktop, oltre ai soliti Word ed Excel, c’è un solo altro programma. Lo apro e, dopo aver scorso tutti i menù e aver aperto alcune finestre, capisco che cinque anni di ragioneria, tre di economia e commercio e un biennio di specializzazione in economia aziendale alla Bocconi mi hanno messo nella condizione privilegiata di non sapere assolutamente come interpretare né i documenti, né il programma e nemmeno il lavoro che dovrei svolgere. In tre parole: non-so-niente. Mi sento la testa vuota, e mi chiedo a che cosa siano serviti dieci anni di studio.
Al colmo della disperazione, mi sporgo dal divisorio del mio cubicolo e cerco di attirare l’attenzione di un impiegato sui trentacinque che, chino su un computer non molto più recente del mio, sta inserendo dati a manetta. Quando, dopo una raffica di tastiera che sembra una mitraglia, si degna di guardarmi, gli domando se lui sa che cosa devo fare. Mi chiede di vedere le cartelline, dà loro una rapida scorsa e poi mi spiega: «Non ti preoccupare. Ti hanno semplicemente scaricata qui perché al momento non sanno cosa farti fare. Tu inganna l’attesa giocando a Tetris, trovi l’icona nel menù Start, e vedrai che prima o poi ti vengono a recuperare. Ma se proprio ci tieni a metterti in mostra, puoi provare a inserire i dati nel programma contabile». E mi spiega una serie di menù e sottomenù che devo aprire per arrivare alla finestra che mi interessa. «Vedrai che, lì, le voci in cui inserire i dati sono le stesse che sono riportate sui moduli cartacei che hai in mano».
«Ma… a che cosa serve?» gli chiedo, frastornata.
«Assolutamente a niente», mi chiarisce. «Il tuo computer non è collegato ai server centrali. È solo un modo per tenerti impegnata e vedere come te la cavi, te l’ho già detto. Per conto mio, ti consiglio il Tetris. Ma adesso lasciami lavorare, che sono indietro». E si rimette a battere sulla tastiera ad un ritmo più vertiginoso di quello sostenuto da Mike Mangini nella sua più funambolica performance coi Dream Theater.
«Ma… e se faccio un errore?» lo interrompo.
«Se fai un errore non ammetterlo con la signorina Bezzi. Tanto lei non ha mai imparato a usare il computer».
Rassicurata da questa confortante notizia, mi metto a giocare con il programma contabile, sicura, visto che non è collegato in rete, che tanto non riuscirò a fare danni.
Un’altra mezz’ora e tutti i neoassunti e gli stagisti sono convocati in sala riunioni. Dopo aver cercato invano di uscire dal labirinto per conto mio, mi accodo a una mia coetanea che sembra sapere il fatto suo in materia di orientamento e finalmente, dopo essere passata dal bagno delle donne e dalla macchinetta del caffè per continuare a tallonarla, riesco a raggiungere la sala riunioni, nella quale un uomo sulla cinquantina, elegantissimo nel suo completo firmato, domina dall’alto di un podio la platea, nella quale sono disposte in fila un centinaio di sedie. Le prime file, naturalmente, sono vuote ma io, per fare bella figura, mi metto nella seconda, da sola.
«Buongiorno», ci saluta l’uomo, che suppongo essere il nostro capo. «Io sono Giacomo Redaelli, e sono il direttore di quest’area». Naturalmente non si scomoda a dirci di che area si tratta. «Io ho indetto questa riunione prima di tutto per presentarmi», prosegue, «e in secondo luogo per rassicurarvi. Io sarò il vostro punto di riferimento per tutto il periodo in cui sarete qui con noi, cioè per il vostro periodo di prova, per il vostro stage o per il vostro tirocinio. Vi posso garantire che, in questa azienda, siamo tutti come una famiglia. Quindi potete considerarmi come se fossi vostro padre. Non mi vedrete spesso, ma potete stare sicuri che io vi controllo, e che conferirò giornalmente con i vostri referenti per monitorare la vostra situazione». Ma come accidenti parla? «I più meritevoli fra voi, al termine del periodo di prova, verranno assunti a tempo determinato nella nostra azienda. E sarà un privilegio, per me, selezionarvi di persona. E adesso non perdiamo altro tempo: dateci dentro, perché avete solo pochi mesi per dimostrare che vale la pena farvi restare nella nostra grande famiglia!».
Alzo la mano per chiedere la parola. Non lo faccio apposta: è un gesto istintivo. Mi morderei la mano subito dopo, ma ormai il dado è tratto, il Rubicone è davanti a me e l’alluvione imminente.
«Mi dica», m’incoraggia il capo con un sorriso.
«Volevo chiedere… Lei è il direttore di quest’area. Ma di che area si tratta?».
Lui getta uno sguardo all’orologio. «Vuole dire che lei è qui da stamattina e non l’ha ancora capito?», mi domanda come se avessi fatto la più riprovevole delle domande.
Vorrei tanto nascondermi sotto la sedia, ma non posso neanche nascondermi dietro alla testa di un collega, visto che ho voluto fare la prima della classe mettendomi in seconda fila. «No, cioè… sì. È che non mi è ancora del tutto chiaro. Cioè…», farfuglio.
«Vuole dirmi il suo nome?», mi invita con un sorriso pericoloso.
No, veramente non vorrei, ma è talmente forte il potere coercitivo di quel sorriso che glielo dico immediatamente. Lui estrae un blocchetto minuscolo dal taschino della giacca e si appunta qualcosa. Sicuramente le mie generalità. Ho già capito: oggi sarà la mia ultima giornata di stage.
«Benissimo, signorina», mi dice. «La terrò d’occhio». Come se non l’avessi già capito da sola. Poi conclude, rivolto a tutta la platea: «E adesso tutti al lavoro, che il tempo è l’unica cosa che non riusciamo ancora a fabbricare».
Tutti si alzano facendo un gran fracasso mentre il grand’uomo, il nostro papà che ci controllerà da dietro le quinte, si allontana a passo di marcia. Mi sembra di essere entrata in un incubo ma, guardando i miei colleghi, mi accorgo di essere tutt’altro che una mosca bianca: tutti hanno uno sguardo smarrito, alcuni sudano come fontane e su certi volti scorgo un’espressione di terrore. Fa sempre paura essere giudicati da un padre, figuriamoci se poi quel padre è il nostro dirigente e quello che dovrà decidere del nostro destino: chi resta e chi se ne va. E in effetti mi riecheggia in testa il titolo di una canzone, “Scivola vai via”. Un consiglio che vorrei avere il coraggio di seguire.
Quando ritorno nel mio loculo non faccio in tempo a sedermi che un ragazzo in giacca e cravatta, suppergiù della mia età, con un sorriso da yuppie stampigliato sulla faccia, mi porge la mano e mi dice. «Ciao, io sono Marco, e tu?».
«Daniela», gli rispondo diffidente. Sta a vedere che è uno dei relatori del capo, un segugio che è stato subito sguinzagliato sulle mie tracce per tenermi d’occhio e riferire altri misfatti da segnare sul blocchetto del grande padre.
«In che area lavori?», mi domanda. Visto che lui è qui, sa benissimo in che area lavoro. È sicuramente una domanda a trabocchetto.
«Devo ancora cercare di capirlo», ammetto. «Non è che potresti darmi un aiutino?».
Lui arrossisce, visibilmente imbarazzato, e il suo sorriso da cretino si dissolve mentre mi sussurra: «Non ne ho la minima idea. Speravo che potessi aiutarmi tu a capirlo».
«Scusa, ma non c’eri alla riunione di poco fa?», obietto.
«Sì, ma ho pensato che, vista la figuraccia che hai fatto, magari nel frattempo ti eri informata».
«No, non ne ho avuto il tempo», gli rispondo piccata. «Comunque, se due più due fa ancora quattro, cosa che, da quando sono qui, non è più così certa, credo che ci troviamo nell’area contabile, o come cavolo la chiamano in questa azienda».
Lui indossa di nuovo il suo sorriso fatto con lo stampino e, tornando a stringermi la mano affettatamente, mi dice: «Ah, sì, area amministrativa! Grazie, grazie. Non ce l’avrei mai fatta senza di te. Che cosa fai stasera?».
Non vedo che relazione abbia la sua domanda con la mia deduzione, ma gli dico: «Credo che mi butterò sul letto e passerò il tempo a chiedermi chi me l’ha fatto fare di venire a fare uno stage in questa azienda».
«Ah, tu sei una stagista?», mi domanda con aria delusa, quasi di disprezzo, se non addirittura schifata. «Scusami per la domanda. Era decisamente fuori luogo. Adesso ti saluto, ho da fare». E si allontana in fretta e furia, come se fosse venuto in contatto con un’appestata. Capisco in quel momento che gli stagisti sono le ultime ruote del carro. Eppure era così ovvio…!
Sto per riprendere posto davanti al computer, chiedendomi se dovrò passare il resto della mattinata a giocare a Tetris, quando un uomo sulla trentina, alto e calvo, con l’aria sicura di sé e con in mano due volumi di fotocopie rilegati ad anelli, uguali a quelli che sono impilati nel carrello alle sue spalle, mi si piazza davanti e, senza porgermi la mano né mostrare altri segni di cordialità, si presenta: «Sono Samuele Mantegazza, e sono il tuo referente per lo stage. Puoi chiamarmi dottor Mantegazza o, se preferisci, semplicemente capo». Mi porge i due libroni. «Questi sono i tuoi manuali. Qui c’è tutto quello che devi sapere sulla nostra azienda e sulle procedure che devi imparare. Per domani devi averli letti tutti e due e imparati a menadito. I manuali non devono uscire dall’azienda, quindi vedi di impiegare bene il tuo tempo. Domani inizierò a farti lavorare sul serio, e non voglio incominciare con il piede sbagliato. Se non avrai capito quello che devi fare, dovrò spiegarti tutto daccapo io, e questo non mi farà per niente una bella impressione. Perciò, se hai dei dubbi, vieni a chiedermi spiegazioni in giornata. Il mio ufficio è il 12-B che, se non ti sai ancora orientare, significa che devi andare nella fila B, che è la seconda a partire dalla sala riunioni, e raggiungere l’alloggiamento numero dodici. È tutto chiaro?». E, senza attendere la risposta, si volta, recupera il carrello e, raggiunto il loculo successivo della fila, si presenta a un mio collega nello stesso modo: «Sono Samuele Mantegazza, e sono il tuo referente per lo stage».
Mi chiedo se l’antipatia sia un requisito necessario per essere assunti, o se sia il lavoro qui dentro a trasformare gli impiegati in questo modo. Ma mi metto l’animo in pace e, ripresa posizione nel mio alloggiamento, inizio a studiare i due manuali chiedendomi come farò a memorizzare tutto per domani senza neanche poter fare ripasso a casa, dato che i faldoni devono restare qui.
Alla sera, quando mamma e papà mi chiedono com’è andata, faccio loro un sorriso stentato e rispondo: «Benissimo». Un radioso futuro lavorativo mi si apre davanti. Ma, dopo questa prima giornata, mi chiedo che cosa abbia a che fare il mio futuro con quell’azienda. E so già che non troverò una riposta.