IL FARDELLO DELLO SCRITTORE

IL FARDELLO DELLO SCRITTORE

Autore: Michele Larotonda

È strano, davvero strano, però più vado avanti con gli anni, più mi piace andare a trovare i miei genitori, aprire quell’anta della libreria e tirare fuori vecchie foto e con loro riaprire il cassetto dei ricordi che possono essere belli, ma anche brutti.
È inquietante vedere quanta gente è passata nella tua vita e , nonostante tutto, ci è passata davvero per poco. Un anno, due anni, dieci anni, venti anni, mezzo secolo sono solo parole, è solo tempo relativo. Conosci persone, le frequenti e un attimo dopo non ci sono più, restano solo le fotografie a ricordarti che un tempo anche loro erano felici.
Una delle foto che mi ha colpito di più è quella dove ci sono io e mia madre. Io con un ridicolo abito celeste, tipico anni 80 e mia madre con una capigliatura vaporosa e cotonata, tipica degli anni 80. Eravamo al Parco Marinai d’Italia, non poteva essere altrimenti abitando in Corso XXII Marzo, i nostri visi erano felici e smarriti. Felici perché essere figlio ed essere madre è un’emozione potentissima, difficile da descrivere a parole. Smarriti perché essere figlio ed essere madre è un’emozione e una preoccupazione che non ha eguali.
Chissà che giorno era? Chissà perché indossavo quell’abito? Mio padre dov’era? E mia sorella? Chi ha scattato quella foto? Chi ha fermato sulla pellicola quel barlume fioco di vita?
Ci sono altri mille altri ricordi.
Ad esempio, mia mamma insegnava e quando mi capotava di accompagnarla nella sua scuola (che poi era anche la mia) fuori orario scolastico, magari per parlare con una sua collega, ricordo che quello per me significava poter prendere una cioccolata calda alla macchinetta. Ora non voglio dire nulla di speciale, ma che ci crediate o no, una cioccolata così buona non l’ho più assaggiata da nessuna parte.
Mio padre era un ferroviere e lavorava ai grattacieli di Porta Garibaldi e ricordo che spesso andavo da lui, pranzavo con i suoi colleghi, facevo telefonate gratis dal suo ufficio e tutto questo mi faceva sentire importante. Non chiedetemi il perché, anche perché in un ragazzino non ci sono ragioni, ma solo emozioni forti, intense e misteriose.
E poi ci fu quel 2 meno in inglese. Già prendere due in un compito è alquanto avvilente, ma aggiungere quel meno era stato devastante.
Mia madre si era rifiutata di firmare il compito e mi spedì avvilita da mio padre.
Non ho mai saputo cosa pensò quando glielo dissi, o forse non volevo capire, non volevo sapere. Solo anni più tardi, scoprii che la bocciatura al liceo fece piangere mio padre. Me lo dissero e io rimasi stupito, primo perché non riuscivo ad immaginare mio padre che piange e secondo perché, nella mia testa da ragazzino, un padre non può piangere, non deve piangere.
Impiegai molto tempo a capire che tante convinzioni abitassero solo nella mia testa e impiegai anni per ammeterei che un giorno sarei diventato come lui. Avrei parlato come lui, avrei reagito come lui, avrei detto a mio figlio le stesse cose che dicevamo a me. Impiegai anni per ammettere che i genitori sono  imperfetti nella loro perfezione.

Questo è un estratto di una storia che stavo scrivendo qualche anno fa e che per diverse ragioni l’ho lasciata incompiuta. Oggi rileggendola, mi sono chiesto se ora, dopo tanti anni, sarei capace ancora di scrivere di cose così personali, di essere così duro e disilluso? Affronterei ancora questi temi? Emidio Clementi sostiene che tutti gli scrittori attingono dal proprio vissuto, perché inventare tutto di sana pianta sarebbe come mentire a se stesso e ai lettori. Ammesso e non concesso, io trovo questa affermazione ovvia e naturale, ma detta da lui assume una potenza incredibile.
Lo scrittore se ne dovrebbe fregare dei meccanismi culturali ed editoriali. Quando uno scrittore ha scritto qualcosa in passato, quella cosa rimane sempre sua e la sua capacità è quella di ricontestualizzare. Amalgamare passato e presente e trovare nuove direzioni, nuovi spunti. A volte certe storie hanno un grande inizio, un ottimo svolgimento, eppure si ha sempre l’impressione che non si possano mai chiudere. Eppure noi che scriviamo, abbiamo questo fardello e continueremo ad averlo fino al giorno in cui il nostro cervello abbasserà la serranda con un unico grande dubbio.
Parleranno ancora di quello che ho scritto?