Autore: Sabrina Fava
La campana della torre dell’orologio rintoccò. Il dannato clangore risuonò in un riverbero infinito, martoriandogli i timpani maturi. Leonardo claudicò un poco e si poggiò alla fredda parete che si trovava alla sua destra. Strinse le dita cercando di appigliarsi ai mattoni che abbracciavano quella stretta viuzza. Sentì il materiale poroso premere contro i palmi morbidi, le unghie riempirsi delle secrezioni della natura. Emanò un gemito, tentando di trattenere un grido.
Fu quello il momento in cui accadde. La mente viaggiò e vorticò a ritroso nel tempo, richiudendosi su se stessa, scricchiolando e stropicciando ricordi. Quel suono lo accompagnò per qualche frazione di secondo, insinuandosi nelle sue stesse orecchie di quando era solo un bambino.
Aveva otto anni ed era il 1931. Era una calda mattinata d’agosto ed era seduto su una scomoda sedia di paglia, accovacciata in un angolo del balcone. Gli occhi della mente stavano lavorando così bene che gli sembrava di essere veramente lì, o forse erano gli acidi che aveva ingollato qualche minuto prima a provocargli quell’illusione. O forse era qualche ora? Aveva perso la cognizione del tempo e dello spazio. Era stato catapultato a ritroso, senza che nemmeno desiderasse farlo.
Quel maledetto suono continuava a sconquassagli il cervello, lo sentiva con più intensità dato che aveva orecchie giovani impiantate nel cranio. La campana rintoccò undici volte, mancava poco all’ora di pranzo e sentiva provenire dalla cucina dei suoi nonni un aroma che gli aveva aperto lo stomaco. Anni dopo avrebbe saputo che non era altro che aglio fatto rosolare in un goccio d’olio.
Un elisir che gli fece spremere le ghiandole salivari e fu costretto a mandar giù fiotti di saliva.
Vedeva la crocchia bassa di sua nonna, mentre osservava con attenzione il fuoco, le fiammelle bluastre che scaldavano la vecchia pentola.
Leonardo sentì la porta aprirsi e dopodiché richiudersi con forza.
Suo nonno lo raggiunse, muovendo i piedi con pesantezza, strascicandoli un poco, una goccia di sudore a imperlargli la fronte. Aveva stretto nella mano destra un logoro sacco di juta e in quella sinistra un secchio in cui un oggetto sbatacchiava ad ogni movimento.
Ting. Ting.
Il sacco cominciò a muoversi, c’era qualcosa di vivo lì dentro. Il cuore di Leonardo cominciò a palpitare di gioia, gli avevano portato un nuovo cucciolo. Ne era certo perché il suo compleanno era prossimo e probabilmente il nonno aveva trovato un gattino abbandonato anticipando il grande giorno. Sapeva che era un micio perché quel muoversi a scatti, gli ricordava quando nascondeva il suo vecchio e ormai deceduto Artù, sotto le coperte. Era un bastardino europeo che aveva amato starsene rintanato con lui alla sera prima di dormire. Ed era proprio fra le lenzuola che si districava come una talpa alla luce del sole, ricordava con nitidezza la sua testolina da felino muoversi al di sotto per cercare la via d’uscita o forse solo una tenera carezza.
Lo stesso identico movimento che osservava proprio in quel momento. Guardava la scena con i suoi occhi da bambino e con quelli da uomo di mezz’età. Un tutt’uno.
E Leonardo già sapeva cosa sarebbe accaduto. Avrebbe voluto intimare al piccolo di coprirsi gli occhi con le mani, tuttavia non aveva voce. Non ci riusciva per quanto ci provasse.
Era forse un incubo?
La nonna li raggiunse. Il cuore ancora palpitante, il piccolo Leonardo voleva vedere che cosa ci fosse dentro al sacco.
E finalmente il suo desiderio fu esaudito. Il nonno cacciò la mano al suo interno, lo acciuffò e lo tirò fuori. Era un bellissimo e candido coniglio dagli occhi rossi, come quelli che si vedono qualche volta al circo degli animali. Non era un gatto, ma Leonardo era felice, non aveva mai avuto un coniglietto come compagnia.
Gli occhi gli brillavano d’eccitazione.
Il nonno passò alla nonna il secchio, il quale tintinnò ancora.
Ting. Ting.
Accadde tutto in un istante.
L’uomo teneva fra le dita callose, ruvide e spaccate il dorso della bestia bianca, la nonna tirò fuori dal contenitore un coltello scintillante. Brillava così tanto che il bambino dovette coprirsi il volto con le mani ancora innocenti.
La lama penetrò nel collo del coniglio e con un suono viscido e ancestrale, i liquidi fuoriuscirono e caddero in uno scroscio umidiccio dentro al secchio che la nonna teneva con cura per evitare che si capovolgesse. Il coniglio non emise nemmeno un rantolo, furono le corde vocali di Leonardo a smuoversi. Un singulto strozzato fuoriuscì dalle tenere labbra.
Vide la pelliccia bianca macchiarsi del rosso del suo sangue. Quella fu la prima volta in cui si rese conto di quale colore fosse veramente il rosso e di quale il bianco, come se non li avesse mai realmente compresi prima d’allora.
Fu quello il momento in cui si rese conto che non era lui il centro del mondo, si sentì solo e spaventato. La sua visione della vita si espanse, non girava tutto intorno a lui.
Le campane rintoccarono di nuovo, erano le 11:15 nel passato e le 23:15 nel presente. Leonardo si risvegliò da quell’incubo a occhi aperti. Era a carponi, poggiato con la spalla al muro di mattoni nella stretta viuzza di quella cittadina medioevale. Il terribile massacro gli si parò nuovamente davanti agli occhi e le orbite gli si riempirono di una tinta sanguigna.
Macchie bianche e rosse erano un susseguirsi, si materializzavano davanti a lui, mozzandogli il respiro in gola, lo inseguivano, lo volevano.
Come un demone infernale gli invasero le carni che ricoprono le ossa e i pensieri che stipano la testa ignorante e limitata. Avvertì una forza, un’energia invaderlo dalla punta dei capelli alle dita dei piedi, si sentì nuovo e rinvigorito.
E il morbo della rabbia ebbe la meglio su di lui.
Un istinto recondito, di quelli che martellano le tempie, che spingono a compiere gli atti più spropositati, ma istintivi, la pratica più antica del mondo.
L’omicidio.
Sbatacchiò gli occhi un paio di volte e il coniglio bianco gli si parò davanti alla vista, voleva vendetta, entrambi la agognavano.
Si rialzò da terra senza curarsi dei pantaloni che si erano sporcati contro gli antichi ciottoli. L’animale zampettava a destra e a manca mentre dentro di lui quello slancio diveniva sempre più impellente.
Si ritrovò a vagare al buio, senza perdere il contatto visivo della sua guida, unico punto luminoso in quella coltre di oscurità. Dopo qualche tempo si ritrovò al di fuori del centro storico e andò incontro alla dannazione. Varcò un cancello e cominciò a percorrere i primi gradini che conducevano alla vecchia torre dell’orologio. Quel suono era stata la chiave di volta.
Il mostro era uscito e nessuno sarebbe stato in grado di fermarlo. Salì le prime decine di gradini e già il fiato sembrava abbandonarlo, doveva poggiarsi alla ringhiera di metallo per non stramazzare a terra. La cittadina collinare pareva allontanarsi ad ogni passo, cercava di fissarla con lo sguardo avvelenato dal color della vita e della morte, fissò qualche luce solitaria. Il vento che frusciava fra i suoi capelli, parevano vampate di puro fuoco. Sudava copiosamente e usò il palmo della mano per asciugarsi.
«Devo andare avanti. Devo salire fino in cima, è lì, lo so» sussurrò alla sua compagna di quella sera: la pazzia. E fu quello il momento in cui l’immagine di un uomo gli apparve in lontananza.
Si trovava a metà della scalinata e lo vide.
Una figura maschile era poggiata al parapetto in cima alla piccola collina, alla base della torre. Continuò e con davanti agli occhi il Santo Graal proseguì. I muscoli bruciavano, la mente vorticava, ciò nonostante aveva trovato il suo obiettivo.
In un paio di minuti giunse a destinazione. L’uomo era ancora di spalle, fra le dita una sigaretta dalla quale aveva appena tirato un paio di boccate. Un completo elegante color scarabeo faceva da involucro a un corpo magro e slanciato. La sua ottima forma fisica era tradita solamente da un accenno di pancetta che tirava sul davanti un paio di bottoni opalescenti. Ora Leonardo pareva avere occhi di falco. I capelli brizzolati illuminati da una manciata di lampioni erano mossi dalla brezza leggera.
Colto dalla foga non riuscì a pensare ad altro che all’omicidio.
“Per il coniglio bianco, per il coniglio bianco” non faceva che ripetere, preso dalla follia.
Il dorso era premuto contro le vecchie mura della torre, si posò per un istante sentendo quanto fossero dure e virili, fece leva per darsi un po’ di slancio e andò incontro alla sua preda.
Il coniglio bianco lo seguiva.
La vittima, ignara del proprio destino tirò un’altra boccata dalla sigaretta. Leonardo si avvicinava sempre più. Mancavano pochi passi e già poteva sentire il dolce aroma della sua pelle. Gli fu finalmente dietro e avvertì un senso di eccitazione tale da essere paragonato a uno dei più intensi amplessi della sua vita.
Non attese altro tempo. L’uomo con il completo color scarabeo aveva le spalle rilassate, la nuca leggermente inclinata in avanti, notò che era di qualche centimetro più basso, e Leonardo poté portargli le mani da fata al collo, con facilità. Sentì la barba ispida, rasata da qualche giorno, premergli contro la pelle. Il calore della sua carne, il cuore che prima lento, cominciò a battere all’impazzata contro l’arteria carotidea.
L’uomo emise un suono strozzato, cominciò a contorcersi e a lottare. Leonardo non aveva pensato al fatto che la sua vittima si sarebbe potuta ribellare.
Era forte, ma la frenesia che invadeva l’omicida era di più.
Strinse con maggior vigore. Ficcò le orbite contro la nuca della vittima e una fragranza di liquirizia mista a fumo di sigaretta gli giunse alle narici. Cercò di entrare dentro di lui con le dita, voleva aprire quel collo candido come suo nonno aveva fatto con il coniglio bianco. Voleva vedere di nuovo il colore rosso per la seconda volta nella sua vita, ma questa volta era lui al centro del mondo, era lui ad avere in mano le redini. Il potere della morte era stretto nel suo palmo.
E mentre affondava i polpastrelli, cercava di immaginare che cosa poteva provare la vittima. I polmoni dovevano bruciargli ardentemente, il panico e il desiderio di inalare anche solo una molecola di ossigeno, dovevano opprimerlo.
Non si sarebbe mai aspettato di morire quella notte, non è vero?
E Leonardo sogghignò.
L’uomo gli premeva contro il petto a tal punto da rischiare di sbilanciarlo, se avesse continuato avrebbe perso l’equilibrio.
“Ma quanto tempo ci mette a morire?” avrebbe voluto urlare.
Non aveva mai ucciso nessuno e non sapeva che diamine aspettarsi, così strinse ancora di più, ma nel farlo la malcapitata vittima ebbe un istante di libertà. Leonardo aveva allargato le dita e il primo parve riprendersi.
Boccheggiò voltandosi appena e dai polmoni gli uscirono fischia assordanti. Poté vedergli il volto. Gli occhi erano arrossati, i capillari che li attorniavano spaccati in un elegante intrico fra la rete di piccole rughe che facevano da cornice a iridi color cioccolato.
Il killer fu preso dal panico.
Gli si lanciò addosso, costringendolo contro la balaustra, il ventre si schiantò con forza contro il metallo e uno scrocchio annunciò che gli si erano spezzate delle costole. Leonardo godette di quel suono.
Gli portò il braccio attorno al collo, come se dovesse cingere un tenero amante, ma strinse, strinse come una bestia inferocita.
La vittima rantolò un’altra volta e finalmente dopo infiniti attimi smise di dimenarsi ed emanò l’ultimo alito saturo di olezzo di sigaretta e liquirizia.
Le campane suonavano ancora, erano le 23:30 e il corpo dell’uomo dal completo elegante giaceva contro la balaustra. Leonardo era madido di sudore, il respiro rotto, le mani graffiate e sanguinanti. Ormai quel suono non gli recava più alcun disturbo, riecheggiava nei timpani come una dolce melodia.
Acciuffò per il colletto la vittima, lo alzò con le ultime forze che possedeva e lo lanciò giù per la collina, il corpo rotolò e rotolò fin quando non si mimetizzò nell’oscurità.
Aveva avuto la sua vendetta, il coniglio bianco lo guardò, sembrò quasi ammiccare, per poi disperdersi fra quella coltre di alberi.