IL CANTO DEGLI ITALIANI

IL CANTO DEGLI ITALIANI

Autore: Gianluigi Chiaserotti

I valori della nostra Patria sono uniti e rappresentati anche dal nostro Inno Nazionale, che con senso popolare ed unitario spesso ascoltiamo, cantiamo e per il quale ci commuoviamo.

Mi riferisco al “Canto degli Italiani”, il “Fratelli d’Italia” del poeta e patriota Goffredo Mameli (1827-1849), caduto giovanissimo per la difesa di Roma sul Gianicolo. 

Ma prima di parlare di questo inno, vorrei necessariamente accennare a Giuseppe Verdi in quanto ispiratore di musiche patriottiche nonché al Romanticismo, di cui è figlio il Nostro ed è del tutto popolare.

Infatti, Verdi partecipò anche attivamente alla vita pubblica del suo tempo. Fu un patriota convinto, anche se nell’ultima parte della sua vita traspare, dall’epistolario e dalle testimonianze dei suoi contemporanei, una disillusione, un disincanto, nei confronti della nuova Italia Unita, che forse non si era rivelata all’altezza delle sue aspettative.

In occasione delle celebrazioni del CL Anniversario della proclamazione dell’Unità d’Italia, nell’articolo “I motivi che portarono all’Unità d’Italia”, tra l’altro, scrissi:

«[…] Ma la “Restaurazione” fu l’inizio di una nuova stagione per la nostra Penisola, che, culminerà, come più volte abbiamo detto, nell’Unità d’Italia.

Agli ideali illuministici, razionali, che portarono alla Rivoluzione Francese, si comincia a contrapporre quel nuovo movimento culturale che è il Romanticismo.

Fra tutti gli avversari della Restaurazione, gli ex-ufficiali napoleonici, formati alla scuola ardimentosa dell’esercito imperiale ed impazienti dell’inerzia cui son ridotti, costituiranno, non di rado l’elemento più combattivo e pronto a passare all’azione rivoluzionaria contro i governi restaurati. Ed accanto a loro un grosso contingente di oppositori è dato dalla borghesia dei commerci e delle industrie, danneggiata, nei propri interessi, ed esasperata dal risorto predominio dell’aristocrazia, oppure da nobili di idee progressiste, ma soprattutto dagli intellettuali, influenzati dall’ormai irresistibile diffusione del Romanticismo dalla Germania verso il resto dell’Europa.

Da principio puo’ apparire che il Romanticismo, predicando il ritorno alla tradizione od esaltando il sentimento, in netta antitesi al razionalismo illuministico, sia alleato alla Restaurazione. Ma si vede che la rievocazione della storia, l’esaltazione delle tradizioni nazionali, il richiamo alla coscienza popolare significano solo l’alimento del patriottismo. Fare appello, come i romantici, al sentimento individuale, alla libera espressione del cuore e della fantasia, in antitesi alle regole del classicismo, significa alimentare la battaglia per la libertà contro lo spirito autoritario della Restaurazione. 

Romantico diviene sinonimo ovunque di liberale e patriota.

Non dimentichiamoci che il Romanticismo nasce in Germania da quel movimento (preromantico) denominato “Sturm und Drang”, “impeto ed assalto”.

La cultura del Romanticismo, infatti, non vive isolata in una sua “turris eburnea”, (la torre d’avorio), ma partecipa caldamente alla battaglia politica che attorno a lei si svolge.

In ogni paese, le università con i loro studenti e docenti costituiscono altrettanti focolai di agitazione liberale e di cospirazioni. Il poeta, il dotto, il musicista [Vincenzo Bellini (1801-1835), Giuseppe Verdi (1813-1901)] si sentono investiti di una specie di missione morale e, come tali, non ascoltati dai loro contemporanei. […]».    

Nel corso della vita di Verdi, lunga quasi un secolo, l’Italia si trasforma appunto da paese soggiogato al dominio straniero in uno stato unificato indipendente, desideroso di far parte delle grandi Potenze Europee.

Il Risorgimento, le lotte per l’unificazione d’Italia, non potevano lasciare indifferente l’animo del compositore. “Nabucco” (con il famoso coro “Va’ pensiero, sull’ali dorate”), “I Lombardi alla prima crociata” (famoso è “O Signore dal tetto natio”) e “Don Carlo” esprimono il sincero amore patriottico di Verdi ed il suo dolore per un popolo oppresso.

A Milano frequentò i salotti intellettuali della città, primo tra tutti quello dell’amica Chiarina Maffei, dove fervevano sentimenti ed iniziative antiaustriache. 

I moti del 1848 lo portarono sicuramente ed apertamente a manifestare i  suoi ideali patriottici.
Il nome del Maestro rimarrà per sempre legato agli ideali del Risorgimento, trasformandosi in un acrostico rivoluzionario, “Viva Verdi!”, da leggersi “Viva Vittorio Emanuele re d’Italia!”, scritto per la prima volta sulle mura di Roma all’epoca di “Un ballo in maschera“. Il graffito alludeva ad un’aspirazione che con gli anni stava diventando sempre più popolare e condivisa.

Lo stesso Verdi finisce per credere in questo progetto quando soprattutto comprende che l’unità del paese si poteva concretizzare non tanto attraverso l’insurrezione popolare e l’inutile e fuori luogo utopia repubblicana di Giuseppe Mazzini, ma esclusivamente con un paziente lavoro diplomatico.

Il Secolo XIX, nell’aspetto musicale italiano, è stato quindi dominato, come abbiamo visto, dall’opera verdiana e dal repertorio lirico nazionale.

Tutte le canzoni, gli inni, le marce composte nella stagione risorgimentale riflettono lo stile allora in voga, che avrebbe continuato a difendere la propria identità stilistica per ancora mezzo secolo.

Fratelli d’Italia” non fa assolutamente eccezione, perché tecnicamente è sostanzialmente assimilabile alla “cabaletta” (nel melodramma il momento dell’azione, della presa di coscienza, dell’incitamento) caratterizzata da una facile orecchiabilità, da un testo semplice e diretto, da una costante ripetizione della formula ritmica.

Il nostro inno, quindi, non è né una marcia né un brano da concerto, ma è un pezzo d’opera.

E poiché l’opera costituiva uno dei rari momenti di compartecipazione di una società divisa in classi, il suo linguaggio doveva raggiungere allo stesso modo gli eleganti palchetti, ma anche le dure panche della platea dei teatri.

Modellati sullo stile del melodramma, i canti patriottici hanno avuto grande merito di propagandare le nuove idee, di raccontare fatti e personaggi, di chiamare all’impegno ed alla lotta.

Sotto codesta luce, i luoghi comuni di cui essi erano infarciti, la semplicità di testi e partiture, talvolta la mancanza di un’ispirazione veramente sincera devono essere letti in chiave di indici di ascolto.

Quel genere di composizioni aveva la capacità di passare velocemente di bocca in bocca, di uscire dai teatri e dilagare nelle piazze, di essere appresi senza sforzo e magari di sparire in poche settimane, superati da nuovi avvenimenti e nuove canzoni.

Goffredo Mameli, appena ventenne, compose “Fratelli d’Italia” tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno 1847, quindi molto probabilmente nei primi giorni di settembre.

L’occasione fu data da una delle tante manifestazioni patriottiche organizzate in quei mesi a Genova in favore delle auspicate riforme civili.

La prima stesura autografa presso l’Istituto Mazziniano non è datata, mentre l’altro manoscritto di Mameli, conservato nel Museo Nazionale del Risorgimento di Torino, riporta “Genova 10 9bre” [novembre].

Si tratta però di una redazione più tarda – forse destinata alla pubblicazione – in cui un’altra mano aggiunse la strofa dell’aquila austriaca, all’epoca proibita dalla censura piemontese.

Sulla composizione dell’inno, da ex alunno dei Padri Scolopi del Collegio Nazareno di Roma, non posso non ricordare un grande Educatore ligure, il padre Atanasio Canata (1811-1867), nato nella bella e ridente città di Lerici.

Di lui fu scritto che aveva l’animo ricco di tre grandi ideali ed amori: “Dio – Patria – i Giovani”.

Egli ebbe come alunno sicuramente Goffredo Mameli i cui versi del nostro inno “Fratelli d’Italia” sorsero tra i banchi del collegio scolopico di Genova, e quindi nella casa torinese dell’amico, del filantropo, del giornalista, dell’organizzatore della cultura liberale in Torino, Lorenzo Valerio (1810-1865), futuro senatore del Regno d’Italia, e musicato dal maestro Michele Novaro (1822-1885).

Ma sicuramente, senza alcuna ombra di dubbio, gli attuali versi dell’inno furono rivisti ed ampliati dal padre Canata medesimo. 

Il Canto degli Italiani” è uno fra gli inni del secolo XIX più originali e più interessanti, l’unico a mettere in scena due protagonisti e ad avere un andamento, oserei dire, quasi cinematografico, come limpidamente scrisse nel 1961 su “Il Tempo” il grande critico Gian Luigi Rondi (1921-2016). 

C’è dialogo, c’è tensione, ci sono i fermenti e le speranze della stagione di vigilia, che porterà alla proclamazione del Regno d’Italia nella suggestiva cornice dell’Aula del Parlamento Subalpino di Palazzo Carignano in Torino il 17 marzo 1861. 

C’è l’atmosfera carica di sospensione che precede la battaglia. 

C’è, soprattutto, la “risoluzione” di una massa indistinta, «calpesta e derisa», che diviene finalmente popolo.

Se la partitura autografa del Novaro tornasse ad essere la sola fonte autentica, il nostro inno apparirebbe diverso, certamente più nobile, e le sedici battute del primo tema – normalmente eseguite nelle cerimonie – riacquisterebbero maestosità inedita.

Non abbiamo necessità di un nuovo inno, piuttosto di un inno nuovo nel carattere e nell’espressione: basterebbe suonarlo come lo immaginò il suo Autore.

E penso che se ancora il nostro Inno Nazionale è popolare, cantabile, pieno di sentimento, ciò è dovuto alla lungimiranza del suo Autore.