Autore: Gianluigi Chiaserotti
Il corrente anno rappresenta il sessantacinquesimo anniversario della prima pubblicazione de “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), suo capolavoro letterario postumo, che la casa editrice Feltrinelli [dopo il rifiuto dello scrittore Elio Vittorini (1907-1966) sia per la casa editrice Mondadori, sia anche per la casa editrice Einaudi] diede alle stampe a cura dello scrittore bolognese, ma ferrarese di adozione, Giorgio Bassani (1916-2000), al quale pervenne, a sua volta, da Elena Croce. Ma la compiutezza, nonché correttezza dell’edizione non venne messa in discussione fino al 1968, quando si riscontrarono centinaia di divergenze, anche cospicue, fra il manoscritto ed il testo stampato. La questione era già stata sollevata da Francesco Orlando (1934-2010), docente di teoria e tecnica del romanzo alla Scuola Normale di Pisa, nel suo “Ricordo di Lampedusa” (1962) (pag. 82). Infatti, come commenta quest’ultimo, tre sono le stesure dell’opera, e precisamente: una prima stesura manoscritta e raccolta in più quaderni (1955-1956); una seconda stesura dattiloscritta da Orlando e corretta dall’Autore (1956), ed, infine, una ricopiatura autografa in otto parti del 1957, recante sul frontespizio: “Il Gattopardo (completo)”. Si è adottato la dizione “parti”, anziché capitoli, perché così volle il Tomasi nell’indice analitico. Infatti ogni sezione dell’opera è propriamente una parte, “cioè la trattazione da una angolazione diversa, ed in se stessa compiuta, della condizione siciliana”, come limpidamente scrive Gioacchino Lanza Tomasi (1934-2023), figlio adottivo del Lampedusa, nella premessa dell’edizione del 1969.
Infatti le otto parti in cui è composto il romanzo potrebbero tranquillamente essere a se stanti in quanto è come se ognuna iniziasse e terminasse l’illustrazione di un quadro.
Furono, quindi, gli eredi del Tomasi, con grande atto di lungimiranza, a voler pubblicare il manoscritto, che è stato tradotto in diverse lingue ed è divenuto, senza dubbio, un classico della nostra letteratura ed ottenne un così vasto successo in Italia ed all’estero, da costituire uno dei singolari “casi letterari” degli ultimi decenni.
Il Tomasi scrisse “Il Gattopardo” nel periodo che va dal 1955 al 1956, quindi, negli ultimi anni di vita, (e praticamente) lavorando al testo tutti i giorni. E ciò indipendentemente dal successo, che la sorte in vita gli negò. Secondo la testimonianza della vedova dell’Autore, l’opera fu scritta “dal principio alla fine, tra il ’55 ed il ‘56” e ciò in pochissimi mesi. Ma il proposito di comporre e scrivere un romanzo storico, ambientato in Sicilia, all’epoca dello sbarco di Garibaldi a Marsala, ed imperniato sulla figura del suo bisavo [Giulio Tomasi di Lampedusa (1814-1885)], era stato annunziato dal Nostro alla consorte almeno un venticinquennio prima.
L’intreccio è più che noto!
Sicilia, 1860. Epoca del tramonto borbonico ed instaurazione, anche nell’isola, della monarchia sabauda liberale. Il c. d. “mondo vecchio”, che vecchio non era, declina per fare spazio al c. d. “mondo nuovo”, emerso dalle idee illuministe, materialistiche e giacobine della Rivoluzione Francese.
L’intera opera è incentrata ed intessuta intorno alla imponente figura ed alle abitudini del capo di un prestigioso casato isolano: don Fabrizio Corbera, principe di Salina (da ravvisarsi appunto nel bisavo dell’Autore se non, come alcuni esegeti affermano, nell’Autore medesimo, nobile generoso figlio della sua radiosa terra siciliana).
Don Fabrizio, lirico e critico nello stesso tempo, con occhio disincantato, fuori dagli avvenimenti, li vede mutare, li vede sfuggire dal di lui controllo e, suo malgrado, è del tutto incapace di adeguarvisi [“(…) è meglio il male certo che il bene non sperimentato (…)”, scrive l’Autore, facendo suo un proverbio millenario, al momento in cui il protagonista vota favorevolmente nel Plebiscito di annessione al Regno d’Italia]. Dall’alto del suo palazzo segue, altresì, con benevolenza, velata da un’amara ironia (ed allo stesso tempo si accorge che sta invecchiando: il suo “fluido vitale” non c’è più), la deliziosa storia d’amore tra suo nipote Tancredi Falconeri, combattente garibaldino, ed Angelica, figlia di don Calogero, rappresentante della “nuova gente”.
A tal proposito, particolare fu la reazione del Principe di Salina nel vedere salire le scale del suo palazzo di Donnafugata, il detto don Calogero in frac, e ciò nel corso del pranzo d’inizio della villeggiatura, nel quale il Principe era semplicemente vestito con un abito da pomeriggio. Scrive il Tomasi: “(…) Non rise invece il Principe al quale, è lecito dirlo, la notizia” (del frac di don Calogero) “fece un effetto maggiore del bollettino dello sbarco a Marsala”. Praticamente don Fabrizio, massimo proprietario del feudo, si sentiva più come tale, ma fu costretto, dagli eventi della Rivoluzione, a ricevere, vestito da pomeriggio, un invitato in abito da sera.
Tutto codesto evolversi di fatti e situazioni, ben descritte e particolareggiate dal Tomasi, ha il suo epilogo nel ballo ove il protagonista, consumando un valzer con Angelica, si accorge più che mai del suo tramonto, di essere corroso da un tragico senso della morte e praticamente esce di scena.
Tutta l’opera fu scritta di getto, ma la dovizia di particolari a cui l’Autore si è dedicato con paziente attenzione è segno che egli sentiva quel “mondo” più che suo. La figura del gesuita padre Pirrone, cappellano della Casa, il cane Benedicò, gli oggetti dell’arredamento, le figlie del principe, la tiepida e religiosa moglie, i lunghi periodi in campagna nel palazzo di Donnafugata e quindi a caccia, con l’organista della chiesa, don Ciccio Tumeo.
Filo conduttore dell’opera è la massima di Tancredi “(…) se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. E’, quindi, una spietata analisi del Risorgimento, accettato dall’aristocrazia siciliana nel senso di detta massima. Ed infatti come si fa a sradicare un popolo ed una terra da antiche tradizioni ed usi con superficiali avvenimenti imposti in un momento di generale turbamento? Se si vuole veramente cambiare, si deve procedere con attenzione e cautela, ed allora si avrà l’adeguamento necessario. Quindi solo chi conosce bene queste tradizioni ed usi puo’, restando dove il destino lo ha giustamente collocato, cambiare ed adeguare certi valori alla realtà [Al riguardo significativo è il rifiuto che il Principe oppone al nobile piemontese Aimone Chevalley di Monterzuolo, giunto da Torino con il preciso incarico di offrirgli il laticlavio di Senatore del Regno d’Italia, e ciò non è un gesto di orgoglio, ma la disperata fedeltà alle proprie radici, alle proprie tradizioni, al carattere dei siciliani, alla propria, ormai disillusa, “decenza” morale, perché, dice il Principe: “(…) i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: (…) ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza”].
Tutto questo ne “Il Gattopardo”, attualissimo sempre per chi voglia leggerlo o chi desideri leggerlo nuovamente, è dipinto in maniera magistrale e nulla viene meno all’intreccio ed al romanzo tanto cari a tutta la narrativa europea del secolo XIX. Le immagini offerte dalla Sicilia narrata sono vive, animate da uno spirito alacre e modernissimo, anche se ampiamente consapevole della problematica storica, politica e letteraria contemporanea; tutto ciò risente dei canoni e dei modelli del romanzo moderno da Proust in poi.
La vicenda descritta ne “Il Gattopardo” puo’, a prima vista, far pensare che si tratti di un romanzo storico. Il Tomasi ha sicuramente tenuto presente una tradizione narrativa siciliana [la novella “Libertà” di Giovanni Verga (1840-1922), “I Viceré” di Federico de Roberto (1866-1927)1 e la novella “I vecchi e i giovani” di Luigi Pirandello (1867-1936), ispirato al fallimento risorgimentale, drammaticamente avvertito in Sicilia, dove erano vive le speranze di un profondo rinnovamento]. Ma mentre de Roberto è, senza dubbio, per codesta tematica il più significativo, in quanto indaga le motivazioni del fallimento con una complessa rappresentazione delle opposte forze in gioco, il Lampedusa presenta la vicenda risorgimentale attraverso il machiavellismo della classe dirigente, che “in extremis” si mette al servizio dei garibaldini e dei piemontesi, convinta che fosse il modo migliore perché tutto restasse com’era. Questa rappresentazione è naturalmente ristretta, per la prospettiva da cui è descritta. Restano fuori dal romanzo molti eventi importanti [per esempio la rivolta dei contadini di Bronte del 2 agosto 1860, stroncata da Nino Bixio (1821-1873) e descritta dal Verga]. Da questo punto di vista quindi le mancanze de “Il Gattopardo” quale romanzo storico del Risorgimento in Sicilia sono evidenti.
Se si richiede di tornare alle vere tradizioni, quindi, non è per nostalgismo, ma per “cambiare” si deve provare codesta immane forza del passato per un futuro più costruttivo e migliore.
Se ciascuno di noi potesse sentimentalmente cogliere ciò, tutto sarebbe molto bello e la lezione de “Il Gattopardo” sarebbe ben compresa e sempre animata da uno spirito costruttivo e degno della nostra nobile indole.
Ecco la vitalità e la vivacità, come si diceva prima, dell’opera che, ad oltre sei decenni dalla sua pubblicazione, è sempre molto educativa (forse questo voleva Giuseppe Tomasi di Lampedusa) per le nuove generazioni che tendono a costruire un futuro senza conoscere le tradizioni, la saggezza e la moralità di chi fu prima di noi.
Scrisse Giorgio Bassani, nell’introduzione del romanzo del 1958: “(…) ampiezza di visione storica unita a un’acutissima percezione della realtà sociale e politica dell’Italia contemporanea, dell’Italia di adesso; delizioso senso dell’umorismo; autentica forza lirica; perfetta sempre, a tratti incantevoli, realizzazione espressiva: tutto ciò (…) fa di questo romanzo un’opera d’eccezione. Una di quelle opere, appunto, a cui si lavora o ci si prepara per tutta una vita.”
1 Il raffronto con il romanzo storico lo possiamo comodamente e tranquillamente trovare appunto ne “I Viceré” di Federico de Roberto, romanzo anch’esso che narra il trapasso dal Regno delle Due Sicilie a quello d’Italia, ponendo in risalto i problemi politici e sociali della Sicilia, raccontando le vicende di una famiglia dell’alta aristocrazia siciliana di origine spagnola (anche don Fabrizio lo era) gli Uzeda, i cui componenti, con il mutare delle generazioni e delle circostanze, continuano a distinguersi per alcune sinistre caratteristiche, come l’egoismo, la prepotenza e l’avidità.
Ma tutto ciò non c’è ne “Il Gattopardo”, ove don Fabrizio è tutt’altro che egoista, prepotente ed avido. Forse un larvato egoismo, ma misto all’invidia, lo troviamo in Concetta, la figlia maggiore di don Fabrizio, innamorata da sempre del cugino Tancredi, la quale non accetterà mai l’unione di quest’ultimo con Angelica.