Autore: Davide Libralato
Ti conosco artisticamente da tanti anni, e sin dalle tue prime esperienze (pubbliche) ti ho sempre considerato un gran caratterista. Le tue interpretazioni sono assolutamente uniche. Da dove nasce questa tua visione della musica?
Anni or sono conobbi un professore, un docente di antropologia del quale, porca miseria, non ricordo il nome. Ci eravamo anche scambiati i nostri relativi contatti, ma nel frattempo, fra un telefono perso e l’altro… Ero a Perugia, per una lettura majakovskiana. Il professore, un elegante signore sui settant’anni, venne a trovarmi in camerino, subito dopo lo spettacolo, e mi sorprese, anzi, mi stupì, raccontandomi di essere stato un intimo amico di Carmelo Bene. Sorpresa e stupore divennero eclatanti quando mi disse che Carmelo nutriva una grande passione per il rock! Avrebbe voluto fondare una band tutta sua, ma non riuscendo nell’impresa, decise di dedicarsi al teatro. Mi disse altresì, burlandosi un po’ di me, che anche Carmelo Bene si sarebbe recato in camerino, ma non per complimentarsi, mi avrebbe invece redarguito e rimproverato… Fantastico. Ecco, mi viene spontanea una considerazione un po’ folle e un po’ ridicola: forse a me è accaduto di percorrere il sentiero opposto a quello del grande, immenso drammaturgo: volevo fare teatro, e mi sono ritrovato intrappolato in una rock band.
Quando ascolto musica mi piace cogliere attraverso essa i gusti e i percorsi che portano poi l’autore a definire il proprio stile… con te fatico. Che musica ha ascoltato e ascolta Pierpaolo Capovilla?
Fino a non molto tempo fa sono stato settario. Da ragazzo ascoltavo esclusivamente prog-rock, dai Genesis ai King Crimson, Van Der Graaf, Yes, ma anche Steve Winwood, il Peter Hammill solista e Peter Gabriel, che adoravo entrambi. Poi, al primo anno di Liceo, conobbi Arrigo, che mi introdusse al punk rock più brutale e massimalista, dai Discharge ai Crass, i primi Meat Puppets, Black Flag, Dead Kennedys, Üsker Dü, insomma, tutto quel mondo in cui la musica rock non era che uno straordinario espediente politico. Compresi che la musica poteva, anzi doveva, farsi strumento di rivolta, opposizione, impegno sociale, emancipazione. Eravamo giovani e incoscienti, e proprio per questo volevamo cambiare il mondo, e il radicalismo del punk rappresentava per noi il modo più naturale di esprimere la nostra urgenza democratica, anti-imperialista, anti-capitalista, libertaria e socialista. Negli anni Ottanta si organizzavano ovunque le “fiere del disco”, dove potevi comprare o scambiare vinili, ed io mi liberai di tutti, dico tutti i miei dischi prog, scambiandoli con quelli della SST Records, o dell’Alternative Tentacles… Maledetta incoscienza! Poi, con la maturità, mi appassionai come tanti altri al suono di Steve Albini e della Touch & Go, quindi Big Black, Rapeman, Slint, Scratch Acid (il mio gruppo preferito ancor oggi), Jesus Lizard, ma anche al grunge di Dinosaur Junior, Melvins, Nirvana (per forza!, anche se dal vivo mi delusero). E che dire del Nick cave degli esordi… Lo vidi dal vivo in un piccolissimo club a Firenze, il tour era quello di From Her To Eternity. Quel concerto mi cambiò la vita. Avevo diciassette anni, e dentro di me accadde qualcosa di cruciale, mi fiorì nel cuore una passione smisurata per il rock inteso come tragedia esistenziale. Dal Nick Cave dei Birthday Party e dei Bad Seeds, quelli con Blixa Bargeld, al Tom Waits di Swordfish Trombones il passo fu breve e inevitabile. Oggi, passati i cinquant’anni, ascolto di tutto, dalla new wave inglese dei bei tempi, alla tradizione cantautorale italiana, e voglio confidarti, e non per amor di paradosso, che il mio autore preferito in assoluto, quello che amo di più, è certamente Pino Daniele.
So che ti sei cimentato in progetti di reading musicali e interpretazioni anche cinematografiche. Lasceresti definitivamente la musica per occuparti solo di recitazione?
Non credo. Direi proprio di no. Per me il rock è Teatro all’ennesima potenza. La musica rock, il palcoscenico, il concerto dal vivo, sono per me ciò che Antonin Artaud intendeva per Teatro della Crudeltà (il teatro di scena, quello che si contrappone ferocemente al teatro di prosa, proprio come ci ha insegnato Carmelo Bene): un momento di vita finalmente vissuta, cruciale, definitivo, più vero del vero. E fu Nick Cave a farmelo capire, che Dio lo benedica.
Nonostante tu sia un veterano nel panorama musicale italiano e tu abbia collaborato con tanti artisti proponi sempre contenuti “freschi” e originali, qual’è il tuo segreto?
Ne sei certo? A me sembra di scrivere sempre e soltanto la stessa canzone, di volta in volta diversamente coniugata.
Hai cantato tanto in inglese e lo fai tanto anche in italiano. Quali sono i pro e quali i contro di entrambe le scelte?
Con il tempo ho compreso che scrivere canzoni in un idioma estraneo al proprio non ha senso.
L’ultima domanda, che si ripete sempre nelle mie interviste. “L’artista per me può definirsi tale perché vive sognando” . Qual è il tuo sogno Pierpaolo?
“Rincorrere i sogni ci ha sempre portato fortuna”, cantavo in Compagna Teresa, la staffetta partigiana che muore assassinata dai briganti fascisti. Il mio sogno è un ideale: l’uguaglianza e la giustizia, la fratellanza cristiana, il socialismo, insomma, l’esatto contrario del mondo in cui viviamo.