Autore: Davide Libralato
Vi ho conosciuto casualmente, un amico mi ha fatto ascoltare alcuni vostri brani. Ho colto da subito una certa affinità con l’ironia. Voi che tipo di musicisti vi definite?
Noi ci definiamo cantautori, anche se è una parola ingombrante che rimanda ad un modo di fare musica un pò superato al quale anche noi cerchiamo di andar oltre. Abbiamo cominciato a suonare nei festival di strada tra clown, acrobati, mangiafuoco ecc. Loro facevano dei cerchi di gente incredibili e a noi non ci filava nessuno. Da lì abbiamo iniziato a sviluppare molta improvvisazione interagendo con il pubblico e provando ad inserire anche comicità e ironia (che ci veniva poi naturale) e ci siamo accorti che questo aiutava a fermare il passante. Sono state quindi una sorta di strumento che ci ha creato audience e interesse, aprendoci un vaso di Pandora che ci ha permesso di raccontare le nostre le storie al meglio e in modo spontaneo. Non siamo però solo comici, o meglio crediamo assolutamente che la comicità sia una forma altissima di comunicazione, perché permette di dire altresì cose serie, ma è anche una cosa che devi riuscire a dosare per non diventare una macchietta e basta, cosa che non vorremmo assolutamente mai essere.
Quanto e come è importante prendersi sul serio quando si va in scena? Voi siete dei grandi professionisti ma apparite come due amici seduti al bar che condividono le loro vicissitudini…
Il nostro spettacolo si è creato con la voluta combinazione di esperienza e improvvisazione, ma sicuramente non abbiamo creato a tavolino una precisa drammaturgia di tutto questo. Come diciamo sempre abbiamo basato la nostra carriera sul fallimento, ribaltando in qualche modo il concetto di successo, continuando a sostenere che in questa società di vincenti noi (da perdenti) possiamo suonare lo stesso, prendendoci poi poco sul serio. Abbiamo pian piano acquisito la consapevolezza che sul palco siamo solidi e quindi siamo sicuri di ciò che facciamo. Allora si che in quel caso siamo seri, perché noi quando ci esibiamo la serietà, intesa come professionismo, lo mettiamo tutto, da quando suonavamo nelle piadinerie fino “all’ultimo” concerto. C’è serietà e umiltà, infatti quando vediamo quelli che si prendono troppo sul serio e in maniera austera tirandosela un po’ ci incazziamo. Ricordiamoci che proprio etimologicamente parlando “canzone” nasce da “canzonare”, ovvero burlare, deridere, “spettacolarizzando” questo o quello. Chi si esibisce per insegnare qualcosa ci lascia un po’ così. Noi siamo semplicemente questo e lo dimostriamo divertendoci. Ti aggiungiamo che eliminando la differenza con il pubblico, “smontando” dallo scalino che ci divide da esso si crea un rapporto orizzontale dove ognuno si può rivedere, e questo crea una magia che è unica, vitale per noi.
Cosa avrebbe fatto il Duo Bucolico se non avesse intrapreso la carriera musicale?
Noi abbiamo due progetti cantautorali solisti tutt’oggi in piedi; quindi, credo assolutamente i musicisti in ogni caso. Poi talvolta ci chiediamo se anche singolarmente fosse emersa in noi la vena comica, chi lo sa. Al di fuori di questo contesto io (Daniele) ho avuto la possibilità di lavorare come direttore per una libreria molto importante, ma ho declinato “l’invito” perché dovevo suonare, ahahahahah! Io (Antonio) invece ho lavorato molti anni nel bar di famiglia quindi chissà…
Facendo entrambi musica, quest’ultima era più di un obiettivo, era la passione che ci muoveva da sempre.
Verosimilmente pensiamo comunque che non esistano vite parallele; esiste solo la vita che abbiamo che in parte si te la scegli, ma in parte lei sceglie te, nel senso che il nostro lavoro è suonare e non ci vediamo diversamente da questo.
Per il vostro stile artistico i “grandi palchi” sono un valore aggiunto o una difficoltà (date le vostre atmosfere intime di “cantastorie”) ?
Qualche anno fa ti avremmo detto che era una difficoltà, ora assolutamente un valore aggiunto.
All’inizio ci chiedevamo come e cosa avremmo fatto davanti ad un mega palco con mille persone, poi c’è scattato quel “perché no” nato da una serie di cose. E non perché siamo i migliori ma proprio perché poi il feedback della gente che si setta con il tuo spettacolo fa e da il resto… è un po’ quel parallelismo, quel rapporto orizzontale di cui parlavamo prima.
Noi non modifichiamo nulla nel nostro spettacolo, che sia davanti 10 o davanti a 1000 persone. Ecco, magari se prendiamo in giro la persona in prima fila è un pò difficile farlo quando il pubblico è vasto, ma è una questione di “ritmo” non di contenuti.
Nel vostro brano Mantra Town nominate “Elisabetta, una donna di Montebelluna…” . Sono le mie zone! Seriamente… lei e le allegre vicissitudini di cui parla il pezzo sono frutto di fantasia o di fatti realmente accaduti?
La canzone è totalmente inventata di sana pianta, Elisabetta non esiste e Montebelluna la conosco perché ho conosciuto un ragazzo di quelle parti, ma nulla più. Diciamo che suonava bene e ci stava a livello proprio metrico e compositivo… è quello il bello di scrivere canzoni, a volte le cose suonano bene e basta. Questo brano sostanzialmente vuole essere una presa in giro di alcune situazioni di “orientalismo” poi spesso mercificate più di quello che sembrano. Ci piaceva l’idea di una persona che scappa magari da una catechesi “tradizionale” per ritrovarsi in realtà altrettanto corrotte. Ecco, combattiamo un po’ questa cosa, indipendentemente da quale sia la fede, proprio il fatto che quando diventa cieca sfoci troppo spesso in cose brutte e pericolose.
L’ultima domanda, l’unica che si ripete ad ogni intervista: “l’artista per me può definirsi tale perchè vive sognando”. Qual’è il vostro sogno, Duo Bucolico?
Il nostro sogno è scrivere una canzone più famosa di “I tempi d’oro”, perché tutto il lavoro che abbiamo fatto dopo credo che sia stilisticamente più interessante. Ci piacerebbe ci fosse una canzone che coroni questa cosa e, visto che non abbiamo una pensione, che questa ci regali anche una specie di vitalizio con i diritti da essa ricavati! Poi un Volkswagen California, un furgone vero, bello e nuovo. Mica una Lamborghini eh?
Scherzi a parte, il sogno vero in realtà è quello che stiamo vivendo. Fino a un po’ di tempo fa fare questo mestiere era improponibile, quindi oggi stiamo già vivendo il nostro sogno, non chiediamo molto di più. Se hai creato qualcosa a livello umano è il massimo, perché è una cosa che ti renderà eterno. Un sogno che si rinnova ogni giorno.