FABRIZIO DE ANDRE’, IL PRIMO DEGLI ULTIMI

FABRIZIO DE ANDRE’, IL PRIMO DEGLI ULTIMI

Autore: Stefano Luigi Cantoni

Quando Fabrizio De André chiuse gli occhi per sempre, in quell’11 Gennaio 1999, se ne andò un pezzo di storia. Sì, perché Faber, come lo soprannominò il suo amico fraterno Paolo Villaggio, non fu solo un semplice cantastorie o un sensibile intellettuale di sinistra. No, Fabrizio era un’altra cosa. Fabrizio era diverso.                            Immerso in un mondo fatto di bombe nelle stazioni, malumori sociali, sequestri politici e diseguaglianze di genere, si aggrappò all’unica cosa che reputò degna di eternità: la parola. Perché Fabrizio, volenti o nolenti, è stato tra i più grandi parolieri degli ultimi 30 anni del ‘900, perlomeno uno dei più sensibili e puri. Per lui l’essere umano non aveva distinzione di sesso, colore o portafoglio. No, per Faber un cuore che pulsava era un “miracolo” da onorare, rispettare, custodire e, perché no, amare. Nell’ascoltare le sue canzoni ci si immerge in storie di uomini e donne fatti di carne, desideri, paure, nevrosi, aspirazioni e dolori. Marinella potrebbe essere la ragazza a fianco a noi che scivola nel fiume giocando con le amiche dopo scuola, Bocca di Rosa la signora un po’ provocante che anima i sogni bagnati dei nostri figli adolescenti.    

                               

Ma Fabrizio era l’eroe non solo delle pulsioni fisiche e immediate ma anche, e soprattutto, dei baci silenziosi, degli amori non dichiarati, degli affetti sussurrati. “Verranno a chiederci del nostro amore”, meraviglioso inno al sentimento più controverso che esista, è un esempio di come lui temesse e amasse al tempo stesso questa fragilità emotiva che solo Eros può conferire persino al più duro dei “machi”. Ogni componimento è un viaggio in un mondo a sé stante, indipendente dal resto dell’universo e, per assurdo, dannatamente legato alla terra e all’acqua che caratterizzarono tanto la sua natale Liguria quanto la Sardegna che, da adulto, lo adottò come figlio prediletto. Perché il sequestro fu l’ennesima lezione che ci ha lasciato Fabrizio, di come da una dolorosa difficoltà si possa trarre linfa di speranza e rinascita. Se tocchiamo un fondo, qualunque esso sia, non possiamo che risalire. E può capitare anche che nel viaggio verso la luce incontriamo, tra le pareti umide e viscose che ci circondano, ciò che umido e viscoso non è, e allora gli tendiamo una mano e, in rispettoso silenzio, ci dona la possibilità di proseguire assieme il percorso.                           Non c’erano diversi per Fabrizio, nemmeno neri, gialli, rossi, bianchi, gay, etero. Per lui esisteva solo una cosa: la vita, soprattutto quella degli “ultimi”. E non gli importava che tu fossi ateo o cristiano, musulmano o ebreo. No, nient’affatto. A lui interessavano i sentimenti che animavano il cuore delle persone. Senza gioia e dolore, senza odio e perdono, non vi può essere memoria.

Ma, ci chiediamo noi oggi, memoria di cosa? Cosa avrà da dirci ancora un cantautore dello scorso secolo?                                           Molto, persino troppo. A poche centinaia di chilometri dai nostri comodi salotti è tornato a imperversare un vento gelido che nessuna barriera potrà mai contrastare, un demone antico ed eterno che è insito nel lato più cupo e oscuro dell’uomo: la sete di potere.                                       Nel pensare dunque a come chiudere dignitosamente questo articolo, mi sovviene una frase che mi rimbomba in testa a guisa di mantra, proprio mentre cerco di ricacciare in gola il magone.   Una frase di Faber che, nella sua dirompente musicalità, racconta la storia di un orrore avvenuto tanto tempo fa. Un orrore che, a distanza di secoli, é drammaticamente tornato ad animare i nostri incubi di inermi e asettici benpensanti.

Fu un generale di vent’anni, occhi turchini e giacca uguale.      Fu un generale di vent’anni, figlio d’un temporale.                                                                                                     Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek…”