EDITING: IL VALORE DEL DISTACCO

EDITING: IL VALORE DEL DISTACCO

Autore: Stefano Luigi Cantoni

Finalmente posso appollaiarmi sulla mia poltrona preferita e stapparmi una birra, guardando con noncurante disinvoltura tutto ciò che mi circonda, perché oggi non è un giorno qualunque, nossignore, oggi è il giorno in cui tutto profuma di fresco, di nuovo, di bello: ho terminato il romanzo.

Eppure, dopo qualche sorso, sento l’euforia cedere lentamente il passo a una flebile soddisfazione che, a poco a poco, diviene un vero e proprio pensiero, oltremodo nebuloso: la revisione. Perché, per ogni scrittore, un conto è aver a che fare con la correzione bozze, refusi ed errori ortografico-grammaticali, base imprescindibile per comunicare con credibilità qualsivoglia concetto, un altro conto è rapportarsi all’oscuro e spesso complicato mondo dell’editing.

La figura dell’editor, nell’immaginario di ogni scrittore, incarna la forma di dittatura e autoritarismo più feroce che sia mai stata concepita. Inizio a sudare, proprio davanti a me si materializza il volto mellifluo di quel “mostro insensibile” che sta per stravolgere, per sempre, la mia storia unica. Una storia meravigliosa, già pronta per il Premio Strega. Troppo bella per essere sfiorata anche solo con il pensiero.

Corro in cucina e mi stappo un’altra birra. Non mi avranno mai quegli insensibili despoti, e poi che ne sanno di cosa volevo comunicare, se in quella riga ho scritto quella cosa deve rimanere quella cosa, cascasse il mondo! Non permetterò che un estraneo metta mano al mio capolavoro, rovinandolo. A metà della seconda birra un’idea mi balena in testa, restituendomi il sorriso: mi auto edito! Che diavolo ci vorrà mai! 

Tutto entusiasta riaccendo il pc, apro il file e inizio a scorrere le pagine, immergendomi nella lettura. Non riesco a sfiorare nemmeno la tastiera, il romanzo è una bomba, è perfetto, cambiare anche solo una frase sarebbe un sacrilegio. Per me è già a posto così, alla faccia di chi spende soldi negli editing!

Il peggio è passato e sento che la mia indomita e cieca autostima si sta riassestando sui soliti livelli (altissimi, ma del resto sono uno scrittore, suvvia…), quindi cavalco l’onda e mando a destra e manca il mio lavoro, in attesa che la fila degli editori si palesi fuori dalla porta del mio monolocale. 

Passa una settimana, un mese. L’ansia dell’attesa ha ceduto ormai il passo, da tempo, alla più cieca delle frustrazioni. Accendo il pc e apro la mail, quasi senza speranza. Gli occhi si sgranano, il cuore riprende a battere, il respiro ritorna regolare. Lo sento, è il mio momento, lo sapevo che era una bomba, lo dicevo io che sono un prodigio. Inizio a leggere, è una delle case editrici a cui avevo inviato il mio capolavoro! 

Giunto alla fine, un senso di vuoto mi pervade. Mi sento crollare il mondo addosso e, colto da un capogiro, mi sdraio sul divano, madido di sudore. La mia storia, secondo l’editore, è anche carina, può funzionare, ma andrebbe sistemata, resa fluida, smussata, accomodata, insomma: va resa “leggibile.” (Che in libresco fa rima con “vendibile”.) 

Con la forza dei nervi mi fiondo in camera e prendo il manuale di scrittura creativa. Nello sfogliare le prime pagine vedo un biglietto con una scritta in corsivo, ingiallito dalle primavere. Lo apro, lo leggo e il mio mondo, in quell’istante, si capovolge. 

Sono passati due anni da quell’afoso mattino di giugno in cui, imbattendomi in quel biglietto, decisi di diventare un editor. Ogni tanto ripenso a quelle poche parole, custodite ormai solo nel cassetto più nascosto della mia curiosa anima, divenuta finalmente umile e aperta al cambiamento. 

Ora posso dirmi pienamente consapevole di quanto a volte sia necessario staccarsi un poco da ciò a cui teniamo, se vogliamo renderlo davvero migliore. E così, dopo l’ennesima giornata trascorsa a rendere leggibili i testi degli altri, socchiudo gli occhi, incurante di una lacrima che, silenziosa, mi solca il viso. Oltre al calore, porta con sé il ricordo di quelle poche parole che cambiarono, per sempre, la “mia” storia.

La forma delle cose si distingue meglio in lontananza.”