Autore: Alessandro Angelo Calzati
Colui che ha avuto la perseveranza di immergersi nel romanzo Infinite Jest di David Foster Wallace (1962-2008) non può fare a meno di ritrovarlo nella propria esistenza quotidiana.
Ci si trova a passeggiare in un parco ed osservando un placido laghetto in cui nuotano delle
carpe rosse viene in mente una barzelletta che non fa ridere:
Un vecchio pesce nuota passando accanto a un gruppo di pesci più giovani. Il vecchio pesce esclama “Buongiorno ragazzi, stupenda l’acqua oggi!”, i giovani pesci si guardano perplessi e uno di loro domanda agli altri “Che cazzo è l’acqua?”. Così io la ricordo e così si poneva probabilmente Wallace nella sua coscienza di avere una genialità superiore al resto del
mondo e nei confronti dei propri lettori, per la maggior parte giovani studenti maschi ben acculturati ma ancora troppo acerbi per comprendere ciò che li circonda.
Per sua stessa ammissione Infinite Jest è un romanzo “molto maschile” come riportato da
David Lipsky che lo ha intervistato agli albori della sua fama per Rolling Stone. Interviste poi raccolte nel libro The end of the tour successivamente riadattato nel film di culto omonimo.
David Foster Wallace soffriva di depressione. Di quella depressione di cui parla anche in
Infinite Jest definendola anedonia, ovvero la malinconia semplice: una specie di torpore spirituale
per cui si perde la capacità di provare piacere o interesse per cose che un tempo ritenevamo
importanti. Vi ricorda qualcuno? Probabilmente la risposta si può trovare in uno specchio.
La sua timidezza e la sua dipendenza dalla TV lo portarono a vivere isolato dal resto del mondo,
pur essendo un insegnante di scrittura molto amato dai suoi studenti a cui insegnava che Kafka era un autore profondamente comico.
Un genio timido a cui si seccava la gola quando doveva essere intervistato o presentare il suo capolavoro, tanto da fare uso di saliva artificiale (esiste davvero, ve lo posso confermare) per lenire il disagio.
David Foster Wallace era davvero un mito incompreso. Nella misura in cui noi non riusciamo a comprendere noi stessi.