COME UCCIDERE UN SOGNO: “IL ROBOT SCRITTORE”

COME UCCIDERE UN SOGNO: “IL ROBOT SCRITTORE”

Autore: Stefano Luigi Cantoni

Di recente, spulciando tra le varie notizie, sono incappato in una particolarmente curiosa, per non dire oltremodo grottesca: un robot scrittore, in grado di digitare parole e caratteri alla velocità della luce. Non c’è giorno o notte, domenica o Natale, per lui: un mirabile esempio di dedizione, applicazione e professionalità, non c’è che dire.

Incuriosito, ho deciso di immaginarne le abitudini, segnandomi ogni suo passo, per carpirne i segreti. Il mio nuovo amico bionico pare si alzi presto la mattina, mettendo in moto le reti neurali con una colazione leggera ma nutriente, quindi accende il pc.

Nel mentre che il sistema operativo carica, svuota fischiettando (mazza se è intonato!) la lavastoviglie, carica la lavatrice e con mano felpata (ops, metallica) rimuove la polvere dalle mensole.

Un beep lo avvisa che il sistema è pronto e lui, luccicante e volenteroso, si piazza sulla sua poltrona prediletta (che poi sarebbe la mia, ma questa è un’altra storia) e inizia a scrivere. Ora, che la tecnologia abbia definitivamente preso parte stabile nelle nostre crepe travestite da esistenze opache, è un dato di fatto. 

Ma l’idea che un robot sostituisca un essere umano in uno degli atti più “umani” che ci possano essere, ovvero la scrittura, un pochino mi destabilizza. Non che io sia razzista, i “robotiani” non mi hanno fatto nulla, non rubano i bambini e parlano educatamente. E poi, la pulizia. Sono dannatamente puliti.                Luccicanti, azzarderei.

Eppure, non so voi, ma a me non convincono del tutto. Non tanto per la pettinatura ingellata che li rende tutti uguali, e neppure per l’outfit rigido che li accomuna a un esercito di soldatini ben educati pronti a obbedire alla donna forte che li comanda (quanta attualità, questi robot!). No, non è solo questo il mio cruccio.                                                        

Ciò che mi leva il poco sonno che mi è rimasto è, in realtà, la loro innata capacità di non provare emozione alcuna. Un bene raro, una fortuna inestimabile, uno strappo unico e invidiabile verso un futuro perfetto, fatto su misura per cuori forti e menti lucide. 

Basta con le favole dello scrittore tutto cuore e lacrime, pensieri e passioni: i robot sono qui a disarcionare ed estirpare il cancro dell’empatia, il germe del comune sentire e, nondimeno, la minaccia delle emozioni.

Immaginatevi un mondo in cui qualcuno ancora si commuove dinanzi a una pagina scritta, a una riga letta o a un pensiero che, fulmineo come un raggio di sole di metà maggio, attraversa perentorio la sala d’attesa del nostro sentire: sarebbe il fallimento della perfezione robotica, della bellezza lucida, dell’ascesa senza compromessi.

Che stupido, da povero umano quale sono quasi dimenticavo il mio robot: lo osservo strabiliato mentre scrive con una tale costanza che quasi provo invidia. Così, ammaliato da tanta perfezione, decido di avvicinarmi a lui, mantenendo il passo leggero e il respiro appena accennato (se lo distraggo, verranno a chiedere conto a me, sapete?)

Giunto a pochi passi da lui, prendo una sedia e mi accomodo accanto al mio nuovo amico, intento a digitare senza sosta sulla tastiera. Tutto a un tratto, le sue dita metalliche si fermano, il suo collo luccicante si volta appena verso me e i suoi occhi (chip?) paiono incrociare i miei.

Il tempo e lo spazio, per un istante, pare fermarsi. Il robot mi guarda, inespressivo per natura, prima di riprendere il lavoro con la sua usuale e silenziosa dedizione, lasciandomi in balìa dei pensieri. E non sono pensieri qualunque. 

Mi sento, all’improvviso, deluso, sfinito e senza speranza. Il terrore di divenire come lui mi coglie nel profondo, sino a scuotermi. Ecco, lo sento, sto per diventare anche io un asettico e insensibile animale da tastiera. Un moderno schiavo destinato a fare felici gli altri attraverso l’infelicità mia. 

Una lacrima improvvisa, però, mi riga la guancia. Gli occhi si riempiono di gioia, la mano torna calda e il foglio bianco si tinge di storie d’inchiostro. Un urlo mi esce dalla gola, facendo addirittura girare il mio amico di ferro e bulloni: SONO VIVO!