Autore: Anita Orso
Sono confusa, vorrei dirvi tante cose, ma non so da dove iniziare, o meglio, non so a cosa dare più importanza.
Ecco, importanza, già il sostantivo è errato, perché chi può giudicare che cosa sia importante raccontare della vita di una persona? Io non lo voglio fare, sarebbe alquanto riduttivo catalogare sotto ad una parola come “importanza” gli eventi di una vita intera.
Dunque, con una mal celata emozione, provo a raccontarvi, a modo mio, Letizia.
Mi piace chiamarla semplicemente per nome è più intimo, scelgo di non etichettarla per la sua straordinaria carriera pubblica, proprio per sentirla più “vicina”, per quanto razionalmente sia impossibile.
Non è stata una persona che ho vissuto, come una zia oppure un’amica, ma è stata una donna che ho conosciuto solo leggendo gli articoli giornalistici, guardando le interviste in video e mirando con attenzione quasi viscerale le sue fotografie; ricordo la Mostra sull’isola della Giudecca a Venezia nello splendido Palazzo “La Casa dei Tre Oci”, nel 2019.
Tuttavia, proprio attraverso le parole e gli scatti in bianco e nero ho percepito qualcosa di lei che mi ha incuriosito e affascinato. Molto probabilmente le mie percezioni sono errate, ma le sensazioni nascondono sempre una, seppur minima, verità.
Guardo la foto iconica de “La bambina con il pallone”, vista tante volte, ma oggi la sua presenza nel web echeggia tristemente con la notizia che Letizia è partita. Scruto con gli occhi alla ricerca dei suoi pensieri mentre la scattava, nel lontano 1980.
Una bambina di nove anni gioca a pallone con le amiche nel quartiere La Cala di Palermo, Letizia è seduta fuori da una trattoria, beve un caffè con Franco suo compagno ed Ernesto un amico, entrambi fotografi. Le risate delle bambine e i lanci del pallone la catturano in un secondo. Si alza e raggiunge il gruppetto. Nota subito Caterina, due grandi occhi neri, sopracciglia folte, un caschetto liscio nero e un corpo esile avvolto in una canotta e gonna di tela grezza. Letizia impugna la macchina fotografica e “spinge” la bambina verso un portone di un palazzo. La bimba forse si spaventa, ma Letizia non le dà il tempo di realizzare, le dice di alzare il braccio sinistro sopra alla testa, in una posa femminile, oserei dire “sensuale”, e di reggere con la mano destra, in primo piano, il pallone da calcio, gioco tipicamente “maschile”. Sullo sfondo i graffi nel legno del portone, come quelli del cuore? La bambina, di alcuni secondi prima, che giocava e rideva, ora aggrotta la fronte e serra le labbra. Il volto si trasforma, emana un mix di espressioni. Io ci leggo, rabbia, sfida e ribellione.
Sentimenti che Letizia ha provato, da bambina e da giovane donna, nella lotta per difendere il suo essere femmina in un contesto familiare e culturale maschilista opprimente e soffocante. Non è un segreto che Letizia per le sue esperienze di vita, disprezzasse la maggioranza degli uomini, perché la donna non ha bisogno di loro e la sua vita affettiva e lavorativa lo ha confermato.
Proprio per questa voglia di affermazione, Letizia ama ritrarre le bambine sulla pellicola in bianco e nero, in quei giochi di luce e ombra molto significativi. È una esigenza, quasi salvifica, che la spinge a voler dare loro una memoria identificativa. È un monito a crescere forti, risolute e indipendenti. Seguire i loro sogni e realizzare i loro desideri.
Le foto sono la testimonianza della speranza che Letizia vuole tramettere nella testa delle bambine. Con esse, vuole dissolvere la nebbia nei loro occhi e infondere la forza nei loro corpi svuotati da coloro che non si devono permettere di farlo.
Caterina con i suoi occhi grandi guarda l’obiettivo e in quei secondi che anticipano il clic della macchina fotografica, lei e Letizia si fissano ed è proprio lì che scatta la magia. Quella che solo chi ama fotografare sa materializzare. Chi osserva il mondo rubandone i frammenti e chi coglie gli attimi con la consapevolezza che non ritorneranno più.