Autore: Gianluigi Chiaserotti
Cadono, in questo 2023, duecentoventi anni, esattamente il giorno 8 ottobre, dalla morte di un vero ed autentico gigante ed iniziatore di un nuovo periodo della nostra letteratura dopo il Barocco , nel segno di una rinascita letteraria di respiro europeo e quindi moderna ed impegnata : Vittorio Alfieri.
Infatti si pensava che questo nuovo inizio fosse stato inaugurato dal Parini, ma egli era,nella mente e nell’ animo, uomo del Secolo XVIII, del periodo razionalistico e delle riforme, e settecentesca, sebbene elegantissima, è l’arte sua didascalica ed ironica nei toni maggiori, erotica e galante in quelli minori.
Il vero inizio (quando si guardi al moto delle idee ed alla qualità dei sentimenti) è certamente in Vittorio Alfieri, la cui poetica vibrerà a lungo nel secolo XIX e cioè dal Foscolo e dal Leopardi fino al Carducci, come accennerò a breve.
«Nella città di Asti, in Piemonte, il 17 gennaio dell’anno 1749, io nacqui di nobili, agiati ed onesti parenti» [codeste parole mi ricordano quando lo storico latino Gaio Sallustio Crispo nella sua “De Catilinae coniuratione” inizia a delineare la figura del protagonista: “L. Catilina, nobili genere natus (…)….], regnante Carlo Emanuele III di Savoia, figlio di Vittorio Amedeo II, primo Re di Sardegna.
Così il conte Vittorio (Amedeo) Alfieri presenta se stesso nella “Vita scritta da esso”, autobiografia stesa, per la maggior parte, intorno al 1790, ma completata solo nel 1803.
Il Nostro ebbe un’attività letteraria breve, ma prolifica ed intensa.
Il suo carattere alquanto tormentato, oltre a delineare la sua vita in senso avventuroso (viaggiò moltissimo in quanto di animo troppo grande per la piccola e provinciale Asti), fece di lui, come vedremo, un precursore delle inquietudini romantiche.
E proprio per questa sua grandezza e spessore dell’opera (basti pensare solamente alle tragedie), che mi limiterò ad accennare ad alcuni temi della sua poetica.
L’immagine, che ritroveremo in Foscolo (sicuramente nel carme “Dei Sepolcri”), di Vittorio Alfieri, irato e desioso, con nel volto il pallore della morte, ma anche e soprattutto della speranza, coglie l’animo del poeta con una tale profondità che supera la comune interpretazione patriottica e politica.
Nel carattere tragico del Nostro, l’ira, ma anche la speranza hanno un profondo significato.
Sarebbe, di conseguenza, ingiusto sminuire l’ardore comunicativo degli accenti patriottici e libertari che l’Alfieri riversa nella sua opera. Ed il nostro animo balza riconoscente al poeta, come ai suoi grandi vicini, che si articolano da Dante a Foscolo, per ritemprarsi nelle supreme speranze per la sua Nazione.
I contemporanei, ma anche i posteri fecero loro il principio alfieriano di una eroica libertà ( riconoscibile sicuramente nelprimo Carducci) e di un inesorabile odio verso i tiranni come espressione dei loro ideali.
Il protagonista alfieriano Timoleone necessitò ai giacobini come tragedia della virtù repubblicana.
Lo spirito eroico delle creature del Nostro, i versi vaticinanti del poeta, anche quando non coincidevano con le particolari tendenze dei grandi patrioti italiani, stimolavano, per la loro energia morale, l’azione magnanima dei posteri.
E sicuramente ciascuno di noi di buona fede puo’ benissimo trovare e/o ritrovare negli scritti di Vittorio Alfieri non le concrete aspirazioni, ma lo spirito operante e bramoso, la volontà di combattere per un’ idea in cui creda e, magari, l’esempio di professare i principi di un operare politico che indirizzi la società in cui vive, e dalla quale, molto spesso, i letterati si fecero alieni, talvolta per viltà, talvolta nell’illusione di aver tacitamente delegato tutto ciò ai c.d. uomini di azione.
L’Alfieri sognava l’Italia «libera ed una» (Dante ritorna sempre), e sicuramente vedendola sottoposta a tirannide, limpidamente scrisse «Patria non m’è, benché natio terreno», e nel “Misogallo” ribadì «nessuna terra mi è patria»: il poeta che vaticinò «sublimi età» e scrisse minaccioso «fia dei tiranni scempio. La sempre viva mia voce temuta», è veramente alle origini sacre del Risorgimento Italiano, ed il suo nome tornerà tutte le volte che l’Italia invochi il meglio per sé.
E queste sono le sue speranze per l’Italia: «Io credo fermamente che gli uomini debbano imparare in teatro ad essere liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti d’ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei propri diritti, e in tutte le passioni loro ardenti, retti e magnanimi» (…) «Io scrivo con la sola lusinga che forse, rinascendo degli Italiani, si reciteranno un giorno queste mie tragedie: non ci sarò allora; sicché egli è un mero piacere ideale per parte mia (…) L’aver teatro delle nazioni moderne, come nelle antiche, suppone la prima l’esser veramente nazione, e non dieci popoletti divisi».
Ma il significato dell’opera del Nostro, anzi la garanzia del valore ideale di quel suo certo insegnamento patriottico, nel quale un tempo si volle vedere la sua grandezza umana soprastare a quella del poeta tragico, non risiede propriamente in questo suo ardimentoso e violento slancio accusatorio.
Il significato di Alfieri è nella sua poesia, o almeno nel sentimento che egli tendeva a tramutare proprio in poesia.
La libertà della patria è forse soltanto un momento o, teatralmente, un atto di quella tragedia (della libertà) dipanantesi nell’animo del poeta: astratta idea o anzi passione della libertà, alla quale contrasta il fato della natura, della storia, di Dio ma di fronte a cui l’uomo deve battersi al di là della sconfitta ed in nome di un suo anelito alla libertà, manifestando l’avversità alla sottomissione del suo essere.
E di codesta lotta fra la libertà e la tirannia che, poi, è il dramma intimo di Alfieri, i suoi libertari ed i suoi tiranni delle singole tragedie sono allo stesso momento immagini e simboli, sia poetici, ma anche ragionativi ed alquanto razionali.
Anche i suoi scritti più politici oltrepassano tale significato (politico appunto) per investire i supremi valori della vita.
Per lui vale di più la c.d. “fiamma d’impeto giovanile”, che il raziocinio.
E’ per questo che l’Alfieri non puo’ definirsi uomo politico, ma il suo giudizio va oltre in quanto la vera, autentica e sentita politica è la sua poesia.
Nel suo “Del Principe e delle Lettere” sostiene che gli antichi eroi sono poeti che operano e più tardi sorgono quelli che incitano alle virtù non con l’azione, ma con gli scritti. Ma senza dubbio il compito dei poeti è il medesimo degli eroi, dei santi, dei martiri e dei profeti: «necessità, o di esser primo fra gli ottimi o di non esser nulla».
La libertà che il nostro chiede per l’Europa non è un’idea, ma il sofferto anelito come un’aspirazione ardente ch’egli ha in sé e per sé.
Asseriva il Nostro che l’eccellente scrittore, se vuol dipingere un eroe «lo crea da sé, dunque lo ritrova egli in se stesso», e dunque scrivendo, scrivendo se stesso e gli uomini, ne crea i principi e ne rafforza gli ideali.
Ed i personaggi alfieriani sono assai più lirici ed assai meno oggettivi di quelli dei grandi tragediografi, perché traducono il suo intimo e non placabile dramma.
Dobbiamo sicuramente considerare l’Alfieri un illuminista inquieto ed insoddisfatto, quindi un protoromantico.
Del romantico all’Alfieri vennero meno dei tratti essenziali, l’ansia religiosa sul fine e sul valore della vita, l’interessamento per la storia ed il compiacimento per gli aspetti particolari e realistici delle cose.
E’ lui stesso che lo dice: «E carmi e prose di vario stil finora Io scrissi, abil non dico, ardimentoso; Storie non mai (…)». L’epica, l’oratoria, la tragedia, la filosofia, cioè le riflessioni morali e politiche. Ecco il suo campo: «Arti tutte divine, in cui, ritratto l’Uom qual potria pur essere, s’innalza al ciel chi scrive e il leggitore a un tratto».
L’Alfieri, prima che poeta, era uomo di passione così ardente (“furore” è la parola da lui più usata) da rivolgersi diritto all’azione ed alla pratica, guidato da inflessibile fermezza di proposito.
In lui torna a sentirsi sicuramente la voce di Dante Alighieri (studiato, apprezzato ed anche commentato dal Nostro), austera e dolorosa ed appassionata ma anche amorosa, tenera e gentile, la cui schiettezza, pur nel vario prevalere o di questo o di quel tono, si era conservata generalmente nei poeti dei tre secoli successivi al suo , per poi perdersi sopraffatta dalla fastosità e dalla frivolezza dei due secoli successivi.
Sicuramente il pensiero e l’opera dell’Alfieri hanno prodotto nella letteratura italiana lo spessore dei contenuti e l’impegno civile.
Concludo con Benedetto Croce: «I “Sepolcri” e le “Grazie”, ma anche le odi ed i sonetti del Foscolo, i canti del Leopardi, l’”Adelchi” del Manzoni ed alcuni inni ed odi, ma anche la semplice e forte verità dei “Promessi Sposi”, poi le rime e le odi del Carducci, e le pagine geniali di altri scrittori, ritennero la serietà dell’ispirazione e dello stile, italiano ed universalmente classico, che l’Alfieri aveva restaurata contro il barocco e contro l’arcadico».
Vittorio Alfieri muore il giorno 8 ottobre 1803 in Firenze, sua ultima dimora (dopo svariate peregrinazioni), e sarà sepolto nella Basilica di Santa Croce tra i grandi d’Italia.
Bibliografia –
Francesco Flora “Storia della Letteratura Italiana”, Arnoldo Mondadori Editore, XI Edizione, 1959, Volume III, “Vittorio Alfieri”, passim;
Benedetto Croce “La Letteratura Italiana” (per saggi storicamente disposti a cura di Mario Sansone), Edizioni Laterza, Bari 1963, V Edizione, “Vittorio Alfieri”, passim;
Arnaldo Di Benedetto Vincenza Perdichizzi “Alfieri”, in Storia della Letteratura Italiana, vol. 10, Salerno Editore, Roma, 2014, passim.