Autore: Stefano Luigi Cantoni
Uno dei mali che più affliggono gli scrittori emergenti è senza dubbio l’ansia da pubblicazione (la cosiddetta vanity press), vera e propria presenza oscura e temibile anche e soprattutto per gli effetti deleteri che essa può avere sull’intero ambiente editoriale.
Parliamoci chiaro: chi scrive, a prescindere dal livello qualitativo e dalla fama acquisita, ha un solo grande desiderio (che spesso diviene fisica e irrinunciabile necessità): farsi leggere. Le strade perché ciò accada sono di norma due: l’autopubblicazione (di cui tratteremo in altra sede) e la classica uscita con un editore, e proprio su quest’ultima variabile si basa la nostra riflessione odierna.
Il paradosso che coglie chi desidera vedere la propria opera pubblicata è il ribaltamento di un paradigma di per sé naturale: non si paga per lavorare, ma si lavora per essere pagati. Pagare per pubblicare non è solo diffusissimo ma oltremodo vergognoso: troppe e mutevoli sono, difatti, le sfaccettature con le quali sedicenti “editori” si palesano con mail confuse, promettendo gloria e successo previa una piccola cifra da sborsare (un umile contributo cosa sarà mai…)
E allora, ecco che arriva la clausola che prevede l’acquisto di un numero minimo di copie, per non parlare del consiglio di mettere il proprio libro in pre order (patetica forzatura alla vendita che nemmeno gli elettrodomestici, suvvia), al fine di assicurarsi una platea di persone minimamente interessate all’acquisto, peraltro effettuato alla cieca, per così dire.
Oggi vendere un libro passa dall’ incuriosire i potenziali lettori, vero, ed ecco che arrivano i social: scrittori che si inventano balletti con il libro in mano, poeti che fan nascere blog come fossero funghi al fine di parlare di altri, nella speranza che gli venga restituito il favore.
Ho conosciuto (e visto) gente piangere, esaurita, perché l’agognato successo passa (così credono questi poveri stolti) per la libreria, per la vendita di quelle centinaia di copie in più, traguardo per il quale tali “novellatori di alta scuola” farebbero di ogni, come pagare il primo stampatore che passa dalle loro tristi aie desolate.
In tutto questo mondo, che di letterario ha ben poco, dov’è la qualità? Se si paga per pubblicare, che livello potrà mai avere la propria opera? Il mercato è saturo, tutti scrivono (quasi tutti, peraltro, parecchio male) e pochissimi leggono (e molti, leggono contenuti “discutibili”): la situazione è grama e, in aggiunta a ciò, una schiera di editori senza scrupoli chiedono contributi a chi, a dire il vero, di contributi avrebbe lui stesso un gran bisogno, non essendo parente del calciatore o dell’attore di turno.
Occorre schierarsi, dunque, e perdipiù è necessario farlo in fretta, prima che il mercato divori le poche penne valide che questo disastrato Paese è ancora in grado di generare (esistono, ve lo assicuro!).
Per fare ciò, inizierei con un coro di incoraggiamento per chi, come me, crede ancora nella possibilità di trovare il proprio posto senza dover vendere natiche e dignità al primo ciarlatano travestito da editore. E allora, a guisa di mantra, ripetete con me: “caro editore: rifiutami!”