Autore: Stefano Luigi Cantoni
Boris Pasternak, nel suo “Dottor Zivago” (1957), tra i tanti temi che ci lascia come memorabile eredità e riflessione ve n’è uno che mi ha particolarmente colpito: la bellezza della caduta, del fallimento, dell’imperfezione.
Nel contesto della guerra civile russa, delle contrapposizioni tra uomini forti e umili destinati alla scomparsa, lo scrittore sovietico pone l’accento sulla sua personalissima visione dell’umanità che, seppur in poche righe, merita di essere affrontata.
Russia e guerra oggi fanno purtroppo rima eppure, allargando il cerchio di questa breve ma (si spera) utile riflessione, ciò che preoccupava Pasternak (e anche il sottoscritto) è una delle più spaventose e deprimenti manie che attanagliano l’essere umano: la volontà di prevalere e prevaricare, a qualsiasi costo.
Lo scrittore russo ci regala una lettura che, oltre che letteraria, profuma di salvifico appiglio: diffidare di chi non apprezza la caduta, di chi la evita a tutti i costi e di chi, in quel fiume di fango chiamato vita, calpesterebbe chiunque pur di arrivare al traguardo “pulito” e ben eretto con la schiena (altra rivedibile illusione, ma questo è un altro discorso…)
Pasternak definisce come dotati di una “virtù spenta” quelli che non sono mai inciampati in un ostacolo, poiché ad essi non è mai stata svelata la bellezza della vita. Una bellezza fatta di imperfezioni, di errori anche impercettibili ma essenziali, di curve che deviano da strade strette e diritte dove risulta impossibile sdraiarsi (e, quindi, rilassare respiro e muscoli.)
Il bello, in fondo, è anche e soprattutto figlio di ciò che bello non è: come mai potrebbe avere valore senza il suo contraltare? Cercando di evitare estetiche dissertazioni (tanto care a chi scrive ma non ai più…), mi preme soffermarmi un poco sulla “meraviglia della diversità”, istante unico per rendere autentica (e non “da copertina”) l’esistenza di ognuno.
Dignità è soprattutto vivere a stretto contatto con i propri sbagli, con le proprie scelte errate, con le proprie ombre: Erasmo da Rotterdam elogiava la follia come forma di conoscenza, Tommaso Moro decantava l’utopia come massima espressione di civiltà e Umberto Eco portava in palmo di mano la bruttezza come espressione di vita vera, in contrasto con la vuota perfezione del bello (accidenti, ecco che torna l’estetica, perdonatemi…)
Arrivare secondi, terzi o ultimi è un privilegio che in pochi sanno apprezzare: elogiare il fallimento, la caduta (per tornare a Pasternak), la “toppata” (per dirla alla moderna), altro non è che riconciliare il nostro smisurato ego con ciò che comunemente chiamiamo mondo: ci sarà sempre qualcuno che cadrà meglio di noi, senza graffi o fratture, ma la differenza la farà lo spirito (e, soprattutto, il sorriso) con cui dipingeremo il nostro “personalissimo” atterraggio.