A PROPOSITO DI INVIDIA

A PROPOSITO DI INVIDIA

Autore: Stefano Luigi Cantoni

Nel De ira, Seneca porta alla luce un tema tra i più profondi e destabilizzanti della storia dell’umanità: l’invidia. Attraverso poche parole, infatti, lo scrittore latino centra in pieno il nocciolo della questione: “Giammai sarai felice finché ti tormenterai perché un altro è più felice di te.

Alla luce di evoluzioni che, dal singolo al collettivo (o, per dirla alla Aristotele, dal particolare all’universale), rendono sempre più cruciale il ruolo della felicità, questa massima obbliga ad alcune riflessioni necessarie, a partire dal concetto di felicità.                                                                          Spesso impalpabile, non sempre (per non dire quasi mai) definibile, tale stato d’animo è da millenni al centro delle più disparate dissertazioni filosofiche, a partire da Epicuro, che nella ricerca della felicità individuava una vera e propria missione, una ragion di vita: l’atarassia e l’assenza di empatia (il non farsi coinvolgere da niente e da nessuno) erano le chiavi per sopravvivere o, meglio, vivere in modo sereno e felice.

Non provare rabbia e odio significava elevarsi a una condizione privilegiata in grado di porre una barriera tra i mali del mondo e i disordini interiori propri di ogni essere vivente: impossibile voler rassomigliare a qualcuno che nemmeno si percepisce. Ah, le lezioni dei classici! Se solo le avessimo ascoltate, oggi l’invidia sarebbe ridotta a un banale capriccio del momento, a una sorta di discutibile puntiglio, e non certamente a una delle ragioni principali del degrado in cui annaspa il mondo.

Il problema sono anche i punti di vista, come spesso accade, ovvero le lenti con le quali si guarda (o filtra) il reale, che ovviamente ci mette in relazione con gli altri, con le loro vite, i loro fallimenti e, ahinoi, le loro gioie. Sì, perché l’invidia nasce da una non-affermazione nostra e da una (presunta, mai certa!) affermazione altrui proprio laddove noi siamo risultati carenti, o perlomeno non all’altezza delle nostre aspettative.

Un senso di repressa impotenza non può che sfociare nell’annullamento del nostro stesso ego, inteso alla latina (“io”): una crisi esistenziale in salsa modernissima, azzarderei dire in versione digitale, dove uno scatto o un post può farci piombare nella più cupa delle disillusioni, nel più cieco degli svilimenti, nel più anacronistico dei rimorsi.                                                                         Tormentarsi per la felicità altrui: qui Seneca ci indica non solo il male che ci affligge ma anche, implicitamente, la soluzione ad esso, ossia tornare al nostro centro, al nostro essere, per dirla in termini motivazionali al nostro focus.

La felicità non è una gara e nemmeno un bene “acquistabile”: la ritengo più una scelta. Si decide di essere felici passando per strade talvolta impervie, dove la corrente spinge in direzione opposta, camminando con scarpe lacere su pietraie affilate, aggrappandosi (se necessario) a liane logore e infangate, certi di vedere il sereno dopo l’ennesima curva sporca e maledetta.

Ma è proprio in quell’istante, in quell’angolo di spazio e di tempo che occorre avere uno slancio coraggioso, un balzo ulteriore: puntare tutto su sé stessi. Oh, non sono matto eh, non intendo menefreghismo o egoismo, ma sano amor proprio: vivere in funzione di una variabile incerta come la felicità altrui non solo è insensato ma oltremodo rischioso, vista la volubilità delle “umane cose”.

In fin dei conti, se vale la pena rischiare, tanto vale farlo su di sé: “guardare male” (il vero e originario significato di invidiare) significa privarsi di tempo per noi, relegarci a spettatori inermi (e fastidiosamente lamentosi) del “teatro-vita”, rinunciare in partenza all’ebbrezza di un sorriso soddisfatto. Ne vale davvero la pena?